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Spire di Parole - Iku - 02-10-2009 Salve! ![]() "Spire di Parole" è il titolo del racconto hobbiano con il quale ho partecipato al concorso Tabula Fati quest'estate. Fonti più o meno attendibili mi dicono che non c'è speranza di sapere se ho vinto o no prima di gennaio 2010...e la cosa mi secca un sacco. Come sapete (o anche no), il suddetto racconto è piuttosto legato alla saga dell'Uomo Ambrato, e per questo mi piacerebbe farlo leggere a qualcuno di voi. Beloved, Prilkop e The Fool l'hanno visionato (grazie ragazze-e-Prilkop!!), e io avrei voluto postarlo qui nel forum, solo che il regolamento prevede che il suddetto rimanga inedito. Ora, farlo leggere a dei miei cari amici non è renderlo edito, giusto? ![]() Mi piacerebbe avere una vostra opinione e sentire se secondo voi, è premiabile o no. Basta una mail e io vi mando il malloppo (ah, non è che sia proprio così lungo, sono 15 pagine con rientri assurdi...avete letto la saga dei Lungavista, suvvia... ![]() Che ne dite? ![]() RE: Spire di Parole - The Fool - 03-10-2009 Gennaio 2010?!? Nuuuuuu... ma è un sacco di tempo! ![]() Io posso solo parlar bene di Spire di parole: è scritto benissimo e sa sorprendere. Althea, naturalmente, può leggere la mia copia se no ti avrebbe già inviato la richiesta. ![]() RE: Spire di Parole - Althea - 04-10-2009 (03-10-2009, 23:12)The Fool Ha scritto: Althea, naturalmente, può leggere la mia copia se no ti avrebbe già inviato la richiesta. Si si! ![]() ![]() RE: Spire di Parole - Phoenix - 06-10-2009 Che scema, mi sono resa conto solo adesso di questo thread! Iku, scusa il ritardo! Mi piacerebbe un sacco leggere il tuo racconto, quindi appena puoi me lo invii? Grassie. ![]() p.s. ti serve la mia mail o me lo mandi in mp? RE: Spire di Parole - The Fool - 02-11-2009 Leggetelo: ora è anche finalista al concorso!!! ![]() ![]() ![]() RE: Spire di Parole - Iku - 29-11-2009 Dato che mi sono piazzata tra i primi dieci...che me la tiro un sacco...e che stasera sono proprio giù...eccovi il racconto. Peggio per loro... (oddio, mi rendo conto che è lunghissimo...ma la trama lo richiedeva, sfortunatamente...e poi...ho fatto del mio meglio!) Spoiler [leggi] Fiocchi, e profumo di miele. L’aria ne era piena, una fluttuante neve di polline che a ciuffetti bordava le strade. Il passaggio della sua bici ne sollevò una manciata in un allegro mulinello candido che fece sbocciare un sorriso sul volto di Telket. Primavera. Quella parola le stava riempiendo la mente con la sua aria fresca, il cielo pulito e quel delizioso profumo di miele lungo la strada per casa. Anche la strada della villa vecchia era un’unica, dolcissima scia di profumo. I pioppi si chiusero su di lei come una galleria verde, che percorse a rotta di collo frenando solo all’ultimo momento. Eccola. La villa vecchia. Strette scale, stanze di legno, corridoi oscuri…un edificio antico in cui era entrata solo da piccola, per un corso di musica, e del quale ricordava solo quei confusi elementi. Lo guardò bene, con il suo parco perennemente in ombra, le finestre appuntite e quell’entrata, la cui forma era perfetta ma il cui legno era troppo chiaro, troppo recente. Una porta nuova di zecca, con sensori elettronici, vetri automatici e uno zerbino marrone. La nuova biblioteca. Telket attraversò il cortile, le scarpe che affondavano nei sassetti bianchi con un rumore familiare e inevitabile. Non le piaceva. Avrebbe preferito muoversi senza far rumore, ma anche se si sforzava quei sassolini vanificavano l’impresa. Raggiunse i vetri dell’entrata, che le si spalancarono davanti accompagnati da una ventata di aria fresca e dal profumo indefinibile di fame di libri, e li oltrepassò. Era dentro. I suoi occhi, affamati dopo quel digiuno di carta stampata, saettarono lungo tutta la stanza e proseguirono in quella vicina, per registrare ogni dettaglio. Elementi moderni, ma corredati da lucido legno color miele. Faretti- quanto amava i faretti! Rumore di pagine voltate, il familiare scricchiolio dell’ampia superficie di un quotidiano. Un finto affresco rovinato sulla parete, imitazione di quelli che ornavano il castello e gli altri edifici antichi, che la fece sorridere di gusto. E scale, di marmo scuro e ruvido. Attraversò la stanza, le scarpe che ancora una volta la tradivano scricchiolando felici su un pavimento nuovo e ancora lucido, e si sentì felice a sua volta. Qualcosa di meraviglioso stava per esplodere dentro di lei, una nuvola dorata di pura gioia a lungo trattenuta e finalmente assaporata. Sorrise, e i suoi passi si fecero cauti e silenziosi. I gradini erano un po’ ripidi, le dispiaceva ammetterlo, ma la scala saliva in modo irresistibile verso l’alto, quasi a imitare le scale a chiocciola delle torri, girando attorno alla colonna dell’ascensore. Si affrettò fino al pianerottolo, sbirciando la sala ragazzi dalla parete di vetro che la divideva dalle scale. Niente a che vedere con quella in cui aveva trascorso la sua infanzia, spoglia e poco invitante: questa le faceva venir voglia di fermarsi, sedersi sui morbidi divanetti variopinti e cercare qualche vecchio amico tra le pagine. Aveva sempre amato leggere, fin da piccola. Aveva letto per gli altri bambini all’asilo, poi i libri avevano perso d’interesse per tutti i suoi amici, e lei era rimasta con questa grande passione e nessuno con cui condividerla. Si decise a cedere e prese a camminare oziosamente tra uno scaffale e l’altro, sfiorando con le dita i dorsi colorati dei libri. Alcuni di loro, finalmente, erano più spessi di un dito. Quando era più piccola sceglieva i libri in base allo spessore, perché un viaggio troppo corto era come una perdita di tempo, ma erano sempre troppo pochi per lei. Prese in mano uno dei primi libri che aveva amato, uno di quelli che le avevano ispirato l’amore per le lunghe letture, e lo sfogliò con nostalgia. Eccoli, quei piccoli eroi che avevano riempito le sue estati. Era capace di rileggere lo stesso libro anche cinque o sei volte, prima di passare al successivo. Scorse qua e là battute familiari, e sorrise. Rileggerle le portava alla memoria dettagli sopiti in essa da anni, come l’umore, il tempo atmosferico e i profumi legati a ognuno di essi. Lo trovava incredibile, eppure ricordava benissimo il luogo in cui si trovava quando aveva incontrato per la prima volta Martino: era in vacanza al mare, arrabbiata a causa di un bambino del bungalow accanto, e un acquazzone si era rovesciato sulla spiaggia all’improvviso, a dispetto della stagione. Non era più in grado di ricordare tutte quelle cose. Tre quarti buoni dei libri che leggeva nemmeno le rimanevano in testa, e di quell’unico quarto, del quale si appassionava e innamorava, dimenticava spesso svariati dettagli. Rimise il libro al suo posto e sedette su un divanetto rosso, dalla consistenza spugnosa. Quando era piccola aveva una memoria invidiabile. Chissà cosa l’aveva rovinata…si guardò intorno, osservando gli scaffali nuovi, in metallo e legno. Le piacevano. Il nuovo aspetto della biblioteca le piaceva moltissimo. Era un’armonica fusione tra il vecchio stile della villa e il bisogno di modernità che la biblioteca, con il sistema antitaccheggio, le postazioni internet e l’auto prestito, aveva acquisito negli anni. Sì, un risultato decisamente gradevole. Si sdraiò sulla ruvida stoffa rossa, grata che a quell’ora la biblioteca fosse già deserta, e chiuse gli occhi. Leggere era molto più che una passione. Ricordava il primo libro serio che aveva letto, a nove anni: parlava di un gruppo di ragazzi in vacanza in montagna, di un’antica leggenda su un mulino che si intrecciava con un nuovo enigma moderno e di una serie di misteriosi personaggi. Era stata la sua prima “fuga”, un viaggio bellissimo in un posto che non conosceva, e per un po’ aveva tenuto il libro con sé, portandoselo dietro ovunque andasse. Era un portale, un passaggio segreto per fuggire dal mondo che tutti conoscevano e vivere qualcosa di magico, solo suo. Si era sempre sentita come la guardiana di una soglia che non tutti potevano varcare, la custode di un segreto che poteva portarla lontano, su quelle montagne, in mezzo a compagni coraggiosi e affascinanti. Si concentrò sul silenzio quasi solido che la circondava, trattenendo il respiro. Era magnifico. Entrare nella biblioteca era come entrare in una chiesa, in un museo, o in un antico tempio, luoghi che esigevano rispetto e silenzio. Lei se ne ammantava, spariva, diventava una mente vagante in cerca di nutrimento per la sua anima. Amava ficcare il naso tra gli scaffali, aggirarsi come una predatrice in cerca di un bottino abbastanza sostanzioso per i suoi appetiti. Nella vecchia biblioteca gli scaffali erano un vero e proprio labirinto, e alimentavano ancora di più l’illusione della caccia. Di romanzo in romanzo, piano piano se la stava rosicchiando da cima a fondo, quando all’improvviso si era vista chiudere tutto, per trasloco e ampliamento. Un anno. Si alzò, presa dalla foga, pensando a tutte le cose che aveva lasciato in sospeso. Per un anno le era stato negato quel piacere, per un anno aveva letto e riletto ogni libro rimasto in casa, compresi Missili con propulsione a razzo, Muratura in laterizio, La Bibbia per Fanciulli, vecchissimi libri appartenuti a suo padre. Uscì dal piano con passo spedito, rischiando di andare a sbattere contro una bibliotecaria. S’immobilizzò di colpo, fissandola. - Fai attenzione, Telket. Era quella antipatica, Debora. Pronunciava sempre il suo nome come fosse un insulto. Era forse colpa sua? Aveva un nome strano, straniero, ma era quello che suo padre aveva scelto per lei. Che guastafeste. Telket scappò via su per le scale, sperimentando la strana e inquietante sensazione dell’essere braccata, e fece un respiro profondo prima di poggiare le mani sulla porta ed entrare, sia per la tensione sia per lo sforzo di salire quelle ripidissime scale. Entrò. Davanti a lei si apriva una distesa di scaffali che sembrava non finire mai. Sgranò gli occhi, estasiata. Erano molti, molti di più di quelli che ricordava nella vecchia biblioteca. Altre due bibliotecarie, che la conoscevano fin da quando era piccola, le sorrisero incoraggianti da dietro il bancone nuovo di zecca, di legno chiaro. - Hai visto che belli? Telket annuì sorridendo. Su quegli scaffali c’era un anno di libri in arretrato, e vecchi compagni da salutare. Camminò nella loro direzione, guardandosi attorno. Le pareti candide moltiplicavano la fresca luce primaverile, che entrava dalle alte finestre assieme a una brezza sottile e delicata che le spostò qualche ciuffo di capelli sulla faccia. Anche lì regnava il silenzio, naturalmente. Telket si avvicinò allo scaffale più vicino, afferrando il primo libro che le capitò in mano. Lo ricordava. Era uno di quelli che aveva come protagonista una donna delle caverne, i libri che le avevano tenuto compagnia quando si era ammalata il secondo anno delle medie. Aveva sempre pensato che leggere degli uomini preistorici le sarebbe piaciuto moltissimo, invece non ne era rimasta particolarmente entusiasta. Certo, erano ben scritti, e interessanti, ma niente di più. Telket sapeva distinguere la bravura dal suo gusto personale. Aveva letto libri orribili che però le erano piaciuti moltissimo, banali e sdolcinati, ma che l’avevano fatta sognare ed emozionare. Era quello che cercava in un libro: coinvolgimento. Come quando era piccola, il suo obiettivo era la fuga. Suo padre non approvava affatto il suo comportamento. Ogni volta che le trovava un libro in mano la accusava di avere sempre la testa tra le nuvole, di trascurare i suoi doveri e di non badare alla realtà. Non che la realtà fosse brutta. La sua non lo era, almeno. Telket sapeva benissimo che c’erano molte, moltissime ragazze più sfortunate di lei, e non aveva poi molto di cui lamentarsi. Solo che per ora la realtà non aveva nulla di così entusiasmante, tranne forse il correre in bicicletta. Passò a un altro scaffale, a un altro volume. Oh, questo le era tanto piaciuto! Un romanzo davvero misterioso, il cui protagonista alla fine si rivelava… una protagonista. Era ambientato in un college, un ambiente che Telket avrebbe tanto voluto sperimentare. Era per quello che le era tanto piaciuto: le aveva permesso di calarsi dentro quella situazione senza cambiar vita. Così come quel libro, letto da ragazzina, che raccontava di come una ragazzina, proprio come lei, fosse capitata su una nave e vi si fosse adattata. Con il senno di poi Telket si era resa conto che non era proprio possibile una cosa del genere, ma la passione le era rimasta ugualmente, dopo quel libro: la passione per le navi (e i pirati, e i marinai, e i mercanti...). Eccone un altro. Il primo. Il primo libro fantasy che le fosse mai capitato in mano. Aveva…sentito qualcosa, la prima volta che aveva letto di quel ragazzo, il protagonista. Lo chiamavano con il nome di un uccello rapace, e aveva…poteri magici. Sì, proprio così. Era un mago. Aveva divorato quelle pagine, trovandole affascinanti, difficili per la sua età ma allo stesso tempo…le era parso di leggerle come da una pergamena. Erano tanto vividi dentro di lei quei dettagli… In breve tempo il fantasy era diventato il suo genere preferito. Come resistere a quelle storie dove tutto era possibile, dove i protagonisti avevano il potere di cambiare non solo il loro destino ma anche quello dell’umanità? Aprì il libro a caso, ritrovandosi magicamente nella stanza del custode della Torre. Quello era il luogo dove tutto era iniziato. Vide il giovane protagonista, ascoltò i suoi tentativi di convincere il custode, rivisse sulla propria pelle quella tensione che l’aveva attanagliata la prima volta, al pensiero che il suo eroe potesse fallire. Aveva già letto il libro, naturalmente, ma riprenderlo in mano le metteva addosso le stesse emozioni. Sfogliò in fretta alcune pagine, catturandone frasi e sensazioni in un piccolo caleidoscopio personale. Sì, quello era stato un bel viaggio, a suo tempo. Poggiò il libro al suo posto, e si guardò intorno ancora una volta. Si sentiva come una bambina in un negozio di giocattoli, pervasa da una voglia incontrollabile di ficcanasare ovunque in cerca di qualcosa. Già. Qualcosa. Era una cosa che non riusciva a spiegarsi. Fin da quando era piccola sentiva questo impulso, questa frenesia di cercare. Appena era stata in grado di inforcare la sua bicicletta e muoversi da sola, la caccia era iniziata, e le sue due mete principali, in cui trascorreva moltissimo tempo dopo la scuola, erano la biblioteca e la libreria. Ognuna delle due aveva il suo fascino. Telket non aveva mai avuto molti soldi per se stessa, quindi i libri che leggeva erano tutti in prestito dalla biblioteca, ma non poteva fare a meno, quando ci passava davanti, di entrare in libreria. Se la biblioteca era un tempio, la libreria era come un cielo notturno, nel quale perdersi a guardare le stelle in attesa che cadessero. Era là che le novità arrivavano, ed era là che Telket decideva quali libri erano interessanti e quali no. Li prendeva in mano, leggeva i risvolti, i riassunti, apriva una pagina a caso, leggeva una sola frase e poi valutava. Era musicale? Era piacevole? Era ispirante? Non era severa. Sapeva che per ogni buon libro che trovava ne avrebbe dovuti leggere altri cinque, per non parlare dell’attesa tra l’effettiva pubblicazione e il loro arrivo in biblioteca. Eppure ogni volta che si trovava da quelle parti il negozio l'attraeva come una calamita, costringendola a entrare e perdersi nel suo labirinto di stanzette. Ciò che la affascinava di più era l’emozione bizzarra dell’alzare gli occhi e trovarsi davanti un intero muro coperto di libri. Chi entrava non alzava mai gli occhi a sufficienza da notarlo, e anche lei spesso sottovalutava la sensazione di vedere libri, libri e libri fino al soffitto e tutto intorno alla stanza. Eppure, nonostante la quantità esorbitante di libri che stavano nella libreria e che ogni settimana andavano e venivano dalla biblioteca, Telket si sentiva sempre e comunque alla ricerca di qualcosa. Scorreva con lo sguardo i titoli su ogni parete e scaffale, ficcava il naso in vecchi armadietti e polverosi magazzini, spinta da una frenesia sottile ma persistente che la possedeva. Doveva cercare. Doveva leggere. Fin da piccolissima leggeva ogni cosa, dalle etichette dei vestiti alle scatole dei cereali, e anche ora le risultava fastidioso rimanere per lungo tempo senza leggere. Era come una necessità fisica, quasi come il bere, il mangiare e il respirare. Doveva leggere. Continuò quella meravigliosa passeggiata, lo sguardo che saltava da un libro all’altro afferrando parole a caso: luna, danza, coltello, storia, guerra, tenda, furia…e si fermò di scatto, impietrita. L’occhio le era caduto su una serie di grossi volumi dai dorsi multicolori, rosso, verde, giallo. Sei volumi. Eccoli lì. Aveva preso in mano il primo per caso, circa un anno prima, del tutto ignara di ciò che le sarebbe successo. Aveva lo spessore giusto e un titolo accattivante, così l’aveva portato subito a casa, ma quando aveva iniziato a leggerlo, il libro l’aveva respinta. Zero. Doveva rileggere le parole almeno tre volte prima di comprenderne il significato, perché la scena e le frasi le rimanessero dentro. Questo l’aveva sconvolta. Non era la prima volta che un libro non le rimaneva dentro. C’erano libri scritti male, o libri che proprio non le interessavano. Ma un libro che la respingeva così, fin dalle prime pagine, non l’aveva mai incontrato. Eppure, leggendo e rileggendo, proprio non ne usciva. Era come tentare di aprire una porta con una matita invece che una chiave. Nulla. Aveva abbandonato la lettura al secondo capitolo, stremata e delusa da quel fallimento. I libri fantasy della biblioteca non erano molti, e l’idea di perdersi una trilogia così corposa le sembrava un vero spreco. Era sempre molto riluttante ad abbandonare un libro prima della fine, e quella resa in particolare le bruciava dentro, una ferita che le rimase a lungo nell’animo. Un’emozione fortissima s’impadronì di lei, e per un attimo rabbrividì. Rimase immobile, a fissarli, mentre altre ferite iniziavano a riaprirsi dentro di lei. Ricordò la sensazione di cancelli chiusi alle sue spalle, di abbandono, di esilio, eppure non seppe resistere. Allungò le mani, intenerita, a sfiorare quei dorsi familiari. Afferrò il quinto volume, dello spessore di un dizionario, e fissò la sua copertina, quella copertina che l’aveva fatta innamorare e della quale avrebbe tanto voluto una copia, poi aprì con sicurezza il libro e si perse a leggere quel punto, il picco di maggior emozione di quella saga. Non aveva saputo resistere. Si trattava di una questione personale, ormai, e non poteva lasciare niente d’intentato. A distanza di qualche mese, infatti, si era gettata di nuovo nell’impresa, e quella volta aveva tenuto duro per i primi cinque capitoli, scritti in piccolo e a righe fitte fitte. Alla quarantunesima pagina l’universo del libro le si era spalancato davanti, e aveva preso a vedere con gli occhi del protagonista, che narrava in prima persona ciò che gli accadeva. Era una storia meravigliosa, vivida, reale come mai ne aveva lette. Ogni sensazione dell’eroe era sua, ogni suo movimento le apparteneva, ogni cosa che gli accadeva entrava dentro di lei come se fossero collegati. Una sensazione stupefacente, che l’aveva trascinata dentro le pagine fino al quinto libro. Telket lesse con febbrile emozione quelle parole, e per un attimo divenne l’eroe, Avieran. Vide con i suoi occhi, le sue mani sfiorarono le redini della cavalla che montava e volò nell’aria, il cuore che batteva a mille e un debole, prezioso momento di gioia assaporata con il suo migliore amico, Feled. Cambiò pagina, e sentì il dolore. Dolore di un bambino abbandonato, dolore di un ragazzo chiamato troppo presto a essere uomo. Dolore di lealtà tradite, di separazioni, e di crescita. Quello stesso dolore che lei provava, la sensazione dell’essere insignificanti e impotenti davanti alle cose che minacciano coloro che amiamo. Chiuse il libro, di scatto. Leggerlo era perdere il controllo, finire in un mondo meraviglioso ed essere una persona diversa. Leggerlo la metteva in subbuglio, in modo doloroso e intenso. Ogni personaggio aveva un piccolo posto nel suo cuore, in un’emozione che difficilmente riusciva a spiegarsi. Quell’autore era riuscito a regalarle qualcosa di così forte che il solo rileggere il libro le aveva rigato le guance di lacrime, di dolore e di commozione. Non si contavano più i momenti in cui quelle parole l’avevano fatta ridere, o digrignare i denti, o gemere per il dolore. Mentre leggeva lei era il protagonista. Forse era la narrazione in prima persona, forse era quel suo modo di rappresentare la storia in maniera credibile, in ogni sua sfaccettatura dolorosa o piacevole. La vita del protagonista era colma di prove e inganni, ma nonostante questo, o forse proprio a causa di questo, le parti del libro in cui il protagonista era felice rendevano felice anche lei, colpendola nell’anima con l’intensità di quelle scene. Rimise a posto il libro, a malincuore, e rimase a fissarli. Trovava profondamente anti-etico portare a casa tutti i libri per rileggerli, ma il desiderio era tanto forte che stava quasi per cedere, quando all’improvviso si rese conto di un piccolo particolare. Il numero dei libri. Due trilogie. Sei volumi. Mentre il quinto, che aveva appena riposto, era l’ultimo che aveva letto. Non sapeva della sua esistenza, credeva che lo scrittore ci stesse ancora lavorando. Afferrò il sesto volume con mani tremanti, e lo voltò per ammirarne la copertina. Eccolo, Avieran. Telket sentì un brivido lungo la schiena mentre guardava con occhi avidi quella figura. Era la prima volta che la sua immagine veniva rappresentata, tuttavia era proprio come lei se lo era immaginato: i capelli un po’ troppo lunghi sulle spalle, quasi dello stesso castano dorato dei suoi, il viso non perfetto ma la cui espressione irradiava fiducia e forza, la figura un po’ bassa ma ben proporzionata. Le venne da ridere. Alla fine lei e il suo eroe preferito erano così simili… Resistette alla tentazione di aprirlo e sfogliarlo. Sapeva che si sarebbe immancabilmente imbattuta in un colpo di scena, rovinandosi così la trama, e che non sarebbe comunque stata in grado di fermarsi. Sfoderò la sua tessera, ormai consumata e con un piccolo libro disegnato in un angolo con il pennarello. L’aveva dimenticata in giro così tante volte che ormai le bibliotecarie non controllavano nemmeno il suo codice nel computer, gliela spedivano a casa e basta. - Sei stata fortunata a trovarlo, sai? Di solito è sempre fuori. La giovane dietro il bancone le sorrise. Telket si era fatta molte amiche tra le bibliotecarie, ragazze che come lei amavano la lettura e l’avevano vista fin da piccola trascinarsi dietro pile sempre più alte di libri. Le sorrise di rimando. - Credo che sia l’ultimo. La fine della mia saga preferita. Il libro passò oltre lo scanner con un gradevole “bip”. - Non li ho letti. Sono un po’ troppo grossi per i miei gusti. Ecco a te! Le porse il libro. Telket ringraziò educatamente, ma mentre usciva scosse la testa tra sé e sé. Dove sarebbe rimasta se si fosse lasciata fermare dallo spessore dei libri? Guardò di nuovo il volume tra le sue mani, e sorrise di cuore. Che meravigliosa sensazione… nessun regalo avrebbe potuto farla così felice. Il libro finì nella sua tracolla nera e la ragazza saltò sulla bici, pedalando piena di nuova energia e scivolando in mezzo al traffico come una piccola saetta blu. La bici era tra le poche cose che possedeva, e l’unica alla quale tenesse veramente. Accelerò, ancora e ancora, fino a sentire l’aria che sferzava fischiando nel cerchio del piccolo orecchino sinistro. Ecco, quella velocità era l’ideale. Non aveva ancora trovato un solo libro che descrivesse quella sensazione, eppure aveva sempre pensato che fosse molto simile a quella che il suo eroe provava cavalcando la sua giumenta. Attorno a lei i fiocchi sembravano seguirla, come piccoli spiriti che partecipassero al suo entusiasmo. Piumini-di-pioppi. Un termine che formava un’unica parola nella sua mente, e che significava primavera. Il rientro fu monotono e senza sorprese. Dalla cassetta della posta spuntavano le orecchie delle offerte del supermercato sotto casa, e l’appartamento era vuoto. Telket combatté l’impulso di chiudere l’universo fuori dalla sua stanza ed entrare subito nel libro, e iniziò invece a preparare la tavola. Quella monotonia diventava ogni giorno più pesante. Tagliò le verdure in piccoli pezzi e li mise a saltare in padella, assieme agli straccetti di tacchino che aveva comprato prima di passare in biblioteca, e si perse a fissarne i colori. Cucinare le piaceva moltissimo, solo… mangiare non altrettanto. - Ciao. Alzò di scatto la testa verso la porta, chiedendosi nello stesso istante dove avesse lasciato il libro, se fosse al sicuro e ben nascosto nella sua borsa. - Ciao papà. L’uomo entrò in casa, e Telket seppe che quella sera si sarebbe di nuovo addormentato davanti alla televisione. I suoi occhi erano scuri, cerchiati, e il tono stesso della sua voce indicava più un “Non crearmi problemi, ho già avuto la mia dose” che un vero e proprio saluto. Lungi dall’idea di infastidirlo Telket continuò a cucinare. Non era sempre così facile. A volte prima ancora di salutarla la rimproverava per quello che aveva cucinato, o per quello che aveva o non aveva fatto. Se da una parte Telket avrebbe voluto ribellarsi, dall’altra c’era sempre quello sguardo. Lo sguardo che suo padre le lanciava quando credeva che lei non lo vedesse, uno sguardo triste e pieno di qualcosa che lei aveva finito per interpretare come rimorso. Anche nei libri succedeva spesso: il suo aspetto gli ricordava qualcosa che avrebbe preferito dimenticare. “La mamma.” aveva pensato Telket “Gli ricordo la mamma.” Nessuno sapeva chi fosse. Né i suoi nonni, né il fratello di suo padre, né nessun altro in paese. Telket fissò il suo riflesso deformato sul cucchiaio che aveva in mano, e sospirò. Non aveva né una madre né un fratello, o una sorella. C’erano solo lei e suo padre, in quella casa, e sebbene fosse l’unica realtà che conosceva, a volte si chiedeva come fosse, vivere in una famiglia numerosa. Servì il tacchino e mangiarono in silenzio, boccone dopo boccone. La carne era molto buona e le verdure saporite, ma Telket non riusciva a gustarli. Mangiò tutto in fretta, e altrettanto in fretta si alzò per sparecchiare. Non riusciva a pensare ad altro che al modo più rapido e discreto per scappare in camera e leggere in santa pace quel libro. Poteva quasi sentirne la voce chiamare dalla borsa, e arrivò perfino a chiedersi come potesse suo padre non sentirla. Si voltò di scatto verso di lui. - Papà, io dovrei- La stava fissando con quella smorfia. Ancora. Lo sguardo. Certe volte avrebbe voluto strapparsi la faccia solo per togliergli quell’espressione dal volto. Distolse lo sguardo una frazione di secondo dopo di lui. Non voleva fargli capire che conosceva quel rimpianto, anche se in realtà non era così. Si era chiesta tante volte il perché di quella faccia… - Ho un compito, domani, quindi…dovrei andare. Buonanotte. - Sì, vai pure. Buonanotte. Fin troppo semplice. Finì di lavare i piatti, afferrò di corsa la tracolla nera e salì le scale fino alla sua camera, uno stanzino angusto che le aveva sempre ricordato una soffitta. Sentì una minuscola fitta di rimorso. “Gli hai mentito.” “Questo non è mentire.” Aveva davvero un compito, il giorno dopo, ma non era certo per studiare che voleva scappare così. Studiare non era mai stato un problema per lei. Era tra quelli a cui bastava ascoltare con attenzione la lezione per ricordarne il novanta per cento, e leggere moltissimo faceva il resto, solo che… beh, non chiacchierava con nessuno, in classe, e non aveva grandi amicizie. Faceva parte di un gruppo piuttosto tranquillo e diligente di ragazze, con le quali si trovava ogni tanto fuori da scuola, anche se non aveva confidato a nessuna il suo amore per i libri. Chiacchieravano, certo, di film, di musica, di televisione e soprattutto di scuola, ma nulla di più. Non sentiva il bisogno di un legame più stretto, anche perché nessuna tra loro avrebbe compreso quella sua passione, che per lei era fondamentale. Sorrise tutta felice, togliendo il libro dalla borsa e contemplandolo lì, sul suo letto, territorio misterioso e inesplorato. Avieran e Feled si erano appena riappacificati, dopo che per l’intero secondo volume un litigio li aveva allontanati. Entrambe le loro vite erano colme di rischi e di avvenimenti che le riempivano, ma durante la lettura Telket aveva sentito moltissimo la mancanza di quel personaggio, che credeva di aver perso per sempre dopo quella lite. Invece nelle ultime tre pagine l’eroe era tornato sui suoi passi, e aveva umilmente chiesto scusa a Feled per ciò che aveva fatto, un gesto che aveva riempito la ragazza di gioia e orgoglio. Aprì il libro e affrontò il prologo, il cuore colmo di emozione e aspettativa. La premessa del Profeta Bianco sembra semplice… …emise uno sbuffo di disprezzo e poi, con un cenno, trasformò i rovi morti in alte… - Telket! Una voce la stava chiamando. Si guardò in giro. Niente rovi. Niente torri in rovina. Camera sua. - Telket, è tardi! Spegni quella luce e dormi! Guardò confusa la sveglia sul comodino. Mezzanotte? Ma non era…? - Telket! La porta si aprì e lui entrò. La cartella era chiusa sul pavimento, il libro era aperto tra le sue mani e chiaramente lei non stava studiando. - Mi prendi in giro? - Ho…ho già finito, papà, sono ore che sto qui. - Che stai leggendo? Una fitta di colpevolezza la colpì alla spina dorsale, come un pugno di adrenalina. Cercò invano di nascondere la copertina e glissare. - Niente, un romanzo, una cosa qualsiasi… Troppo tardi. Lui afferrò il libro e lo voltò per leggerne il titolo, mentre la mano di Telket stringeva invano l’aria nel tentativo di fermarlo. Troppo lenta. - Il Fato del- chi ti ha dato questo libro? - E’ della biblioteca, papà, l’ho preso in prestito… - Chi te l’ha dato? Michela? Delia? Debora? - No, papà…Claudia… Telket non capiva. Il passaggio dal libro alla realtà era stato troppo brusco, e il suo stesso corpo si sentiva a disagio. Perché suo padre le stava chiedendo delle bibliotecarie? - Non posso lasciartelo. Smetti di leggere queste sciocchezze e cresci, una volta per tutte. Glielo aveva chiuso in faccia ed era uscito dalla stanza. Telket sbatté le palpebre, stordita dalla rapidità con cui il libro le era stato sottratto, e fissò la porta della camera, chiusa. Niente. Un attimo prima se ne stava seduta in un roveto assieme al protagonista, e l’attimo dopo si vedeva sottratto il libro che più aveva desiderato al mondo. Sentì nel suo cuore qualcosa di molto simile all’esilio e al tradimento. Come poteva suo padre toglierle una cosa che amava così tanto? La rabbia la riempì come un liquido bruciante. Quanto avrebbe voluto ribellarsi! Corse alla porta. - Non puoi portarmelo via, è della biblioteca! Le sue parole piene di rabbia risuonarono giù per le scale. Suo padre non si prese nemmeno la briga di alzarsi dal divano. - E’ là che deve stare. Dirò a Debora di non dartelo, per nessuna ragione. Non voglio che tu lo legga. - Ma a me piace! Non puoi portarmelo via così! - Va a dormire, Telket! Aveva alzato la voce. Era finita. Qualunque altra parola non sarebbe servita, non ora. Si chiuse la porta alle spalle, si rannicchiò in posizione fetale sul letto e con le guance rigate di lacrime chiuse gli occhi, aspettando che il sonno si impossessasse di lei. - Ti prego! La sua voce era un gemito strozzato, i suoi occhi un pozzo di disperazione. Eppure Debora scuoteva ancora la testa. - Mi è stato espressamente detto di non concederti questo prestito, ed è inutile che mi supplichi. Non puoi portare a casa il libro, e io non te lo darò. Punto. Il Fato del Matto era lì, sul tavolo su cui la bibliotecaria si appoggiava. Telket combatté il desiderio di allungare le mani per afferrarlo e scappare via, e si costrinse a guardare la donna negli occhi. - Mio padre non ha il diritto di impedirmi di leggerlo! - Sei minorenne, Telket, lui può decidere anche per te. Braccia incrociate, la bibliotecaria anziana guardò Telket dall’alto in basso, sovrastandola come una grigia torre diroccata. Era stata l’insegnante di suo padre, e non perdeva un’occasione per rinfacciarglielo assieme alla sua posizione di capo bibliotecaria. Telket la odiava per questo suo atteggiamento di superiorità. Niente a che vedere con la cordiale complicità delle altre bibliotecarie. - Ma è un fantasy! Un libro, accidenti! Cos’avrà di tanto male! Debora sfoderò il suo sorriso più acido. - Vallo a dire a tuo padre. Io seguo solo le sue indicazioni, e il libro non si tocca. La ragazza si era sentita invadere dallo sconforto, pungente e doloroso come la puntura di un’ortica. - Debora, ti prego, davvero! Non puoi capire quanto significhi per me quel libro! Telket aveva passato l’intera giornata pensando all’eroe, a ciò che stava per essergli rivelato sotto quella torre e al momento in cui sarebbe potuta tornare in quel posto per scoprire cosa sarebbe successo. A malapena aveva finito il compito, e per il resto delle lezioni era stata disattenta e irritabile, la mente sempre rivolta al libro e al modo in cui riprenderselo. Quell’opposizione immotivata di Debora la stava facendo rapidamente passare dalla rabbia alla disperazione. - Non costringermi a ripeterlo, Telket. Non cambierò idea. La ragazza si morse le labbra cacciando indietro una risposta che avrebbe solo peggiorato le cose e strinse i pugni, combattendo le lacrime che già minacciavano di sbucar fuori. Guardò la donna portare il libro al suo posto nello scaffale, lanciarle un’occhiata minacciosa e sparire nella stanza accanto, e sospirò per calmarsi. - Ehi, Telket… La ragazza si voltò. Dietro il bancone del prestito c’era Delia, la più giovane tra le bibliotecarie, con la quale Telket aveva spesso discusso di libri e autori. - Vieni qui… Le indicò l’angolo del muro con aria cospiratoria e vi si nascose dietro. Telket controllò l’eventuale presenza di Debora, poi la seguì rapidamente, incuriosita. - Né Debora né tuo padre possono farti una cosa del genere, e lo sanno bene. Non è giusto, e va contro le regole della biblioteca. Ho un’idea per farti leggere quel libro. Telket sentì un barlume di speranza accendersi dentro di lei. - Sono disposta a tutto. La bibliotecaria sorrise, provocando in lei un travolgente moto di gratitudine. - Bene, ma non dovrai fare molto. Non possiamo darti il libro di nascosto, il computer lo registrerebbe, e non possiamo nemmeno prenderlo in prestito noi per te, perché lei se ne accorgerebbe, però tu puoi venire in biblioteca quando lei non lavora e leggerlo da qui. Leggere un libro in biblioteca? Telket fece una smorfia, e Delia rise. - Lo so che ti ci vorrà del tempo, ma è l’unico modo che abbiamo. Se ci verrà in mente altro te lo diremo, ma intanto… La ragazza annuì. - Grazie mille, Delia. Significa molto per me. - Significa molto anche per noi, Telket. Debora non è giusta con nessuna delle altre, approfitta del suo ruolo e nessuno le può dire nulla. Questo sarà il nostro modo di vendicarci… Si sorrisero complici, e Telket incrociò silenziosamente le dita. Sperava davvero che quel piano funzionasse. Iniziò un periodo molto duro. Debora lavorava in biblioteca quattro giorni su sei, e in più Telket aveva scuola, la mattina. Non era semplice. Nella sua lista personale quel libro aveva la precedenza su ogni altra cosa, compresi lo studio e le faccende domestiche, ed era difficile mettere un freno alla lettura per tornare a casa e non destare sospetti. Aveva finito per inventare una scusa dopo l’altra: studio di gruppo, una festa a casa di un’amica, sessioni di studio in giro per la città, uscite varie. Qualunque cosa era preferibile al saperla in biblioteca, o almeno così le pareva. Questo la offendeva. Che cosa nascondeva quel libro che lei non potesse sapere? L’unico argomento che le veniva in mente era il sesso, ma lei non era più una bambina, anche se la sua conoscenza era più teorica che pratica. Non se lo sapeva spiegare. Gli altri libri della saga non erano affatto volgari, né vi aveva trovato scene di sesso o riferimenti piccanti. In quell’ultimo libro il protagonista si imbarcava per accompagnare il suo principe, Dulediv, oltre i confini del regno, a caccia di creature fantastiche. Assieme a lui partivano anche il suo migliore amico, imbarcato clandestinamente all’ultimo momento, e un gruppo di personaggi che, al pari dell’eroe, possedevano una sottile forma di magia. Avieran iniziava ad avere delle visioni poco chiare che coinvolgevano una misteriosa bambina bionda, e a nutrire dei sospetti sulla lealtà del suo migliore amico Feled. Quella lettura diluita giungeva proprio nel momento peggiore: Telket si sentiva continuamente in bilico tra le due realtà, quella che viveva assieme ad Avieran nel libro e quella in cui, nella vita reale, doveva fare i conti con il resto dei suoi impegni, ma sentiva sempre più forte il desiderio che la prima avesse il sopravvento sulla seconda. Con i pomeriggi metà impegnati in biblioteca e metà dietro ai compiti che si accumulavano inesorabilmente, la ragazza aveva sempre meno tempo per le faccende di casa, finendo così per trascurarne alcune e rischiando di farsi scoprire. Con il padre non aveva più menzionato il libro, anche se moriva dalla voglia di chiedergli il perché di quel divieto, e i loro rapporti erano tornati freddi come prima. Ogni minuto che passava fuori dalla biblioteca era una tortura, soprattutto ora che la trama iniziava a muoversi. Telket leggeva nascosta in un angolino della biblioteca, seduta su una minuscola panca addossata al muro, dietro una rientranza dello stesso. Era tardi, quasi l’ora di tornare a casa, ma fino a che il suo orologio non avesse suonato nulla poteva distoglierla da quel viaggio. La stanza in cui eravamo stati condotti era molto più piccola di quella del castello, eppure la piattaforma che la sovrastava era imponente quanto il trono del re, a Rocca. Il volto della vecchia che vi stava sopra era rugoso e scuro come la corteccia di un albero, eppure il suo sguardo era incredibilmente intenso e penetrante. Ebbi quasi l’impressione di esserne colpito. Al suo fianco sedeva un giovane, appena più che ragazzo ma non ancora uomo, che aveva tutta l’aria di essere il principe del clan: i suoi vestiti erano pratici e confortevoli, ma la qualità delle stoffe e dei materiali utilizzati per decorarle tradivano le sue origini nobili. Al mio fianco Feled non riuscì a trattenere un mormorio di approvazione. Le guardie ci fecero cenno di sedere attorno ai gradini che portavano alla piattaforma, su minuscoli cuscini inaspettatamente comodi per la postura. Il mio signore stava per rivolgersi al principe di quel clan quando gli occhi della donna tornarono a cercare i miei, e alzando una mano a coprirsi le labbra mi rivolse il palmo, sul quale era tatuato un occhio, bisbigliando il mio nome. La sua voce mi giunse fioca, come un sospiro, eppure risuonava alle mie orecchie come un’eco. La guardai negli occhi, mentre quel bisbiglio si faceva strada lungo la mia spina dorsale e si annodava in gelidi brividi. Mi venne la pelle d’oca. L’attenzione dei due principi si spostò sulla donna, che aveva allungato la mano verso di me e continuava a fissarmi. Le implicazioni diplomatiche di quel gesto mi terrorizzarono per un attimo, poi il principe straniero annuì in direzione della donna, che si alzò in piedi. Era molto più bassa di quanto avrei immaginato, eppure quegli occhi riuscivano a farmi dimenticare tutto il resto. - Sei solo - iniziò la donna, sussurrando ancora con quella strana voce riecheggiante – diviso da colei che è la tua metà, colei che condivide il tuo spirito. Tu l’hai persa, molto tempo fa, e piano piano stai perdendo ogni legame con lei. Attento a non perdere anche te stesso, giovane Avieran. La sua mano si mosse rapida davanti al mio viso costringendomi a chiudere gli occhi, e vidi. Vidi una bambina dai capelli biondo scuro e gli occhi color dell’autunno, che mi guardava sorridendo e mi tendeva una manina paffuta. Ancora lei. Il suo volto mi era così familiare, eppure ero sicuro di non averla mai incontrata di persona, nonostante il suo sguardo mi dicesse il contrario. Assomigliava forse a qualcuno che conoscevo? Feci per allungare la mano per afferrare la sua, quando quella visione si dissolse e il volto dell’anziana donna mi ricomparve davanti, scrutandomi con i suoi occhi profondi e terribili. - Era lei. E’ parte di te, e non potrete mai essere completi l’uno senza l’altra. Ricordalo, Avieran. Mi voltò le spalle per tornare sulla piattaforma dalla quale era scesa, e io cercai istintivamente lo sguardo di Feled. Il mio amico mi stava guardando con aria solenne, il mento sollevato. Per un attimo credetti che anche lui avesse visto la bambina, poi un suo minuscolo cenno della testa in direzione di Dulediv mi ricordò dei due principi, e rimasi in silenzio, in attesa impaziente di un momento più favorevole per parlare con il mio amico. - Telket… La ragazza alzò la testa, confusa nell’udire il suo nome, e vide Michela, un’altra delle bibliotecarie di cui era amica. - E’ tardi, Telket, devo chiudere… La ragazza scrollò la testa nel tentativo di scuotersi di dosso la visione di Avieran, che le annebbiava la testa, e guardò la giovane negli occhi. - Tardi quanto? - Sono le sette…sono già andati via tutti. Telket spalancò gli occhi. Le sette! Era in ritardo di almeno mezz’ora, e non aveva idea di cosa cucinare. Afferrò la tracolla nera e lanciò il libro a un’esterrefatta Michela, che peraltro lo prese al volo. - Scusa, e grazie per avermi chiamata! Fece le scale a rotta di collo, grata che nessuno la potesse vedere, e inforcò la bici più rapidamente che poteva, pedalando con tutte le sue forze in direzione di casa. Il suo orologio non aveva suonato, oppure l’aveva fatto e lei non l’aveva sentito. Sperò con tutto il cuore che suo padre non fosse ancora tornato. Avrebbe dovuto fare più attenzione. Sarebbe stata una maniera davvero stupida di tradirsi, perdere tutto per aver letto troppo, ma quel pensiero non era niente più che un sussurro in mezzo al turbine di sensazioni che quel paragrafo le aveva scatenato. Ecco chi era la ragazza che appariva nei sogni di Avieran! Era qualcuno che apparteneva al suo passato, qualcuno che era “parte di lui, metà della sua anima”. Non c’erano molte donne nel romanzo, giusto la madre del principe Dulediv e qualche personaggio secondario, ma nessuna bambina. Certo, ognuna di quelle donne era stata bambina un tempo, ma Avieran era troppo giovane per averle incontrate. Arrivò a casa. Troppo tardi. La macchina di suo padre era parcheggiata davanti all’edificio. Niente da fare. - Sei in ritardo. Era seduto al tavolo davanti a un fascio di fogli, con l’aria concentrata. Non aveva neppure alzato la testa. - Lo so, scusami…farò in modo che non succeda più. Si era subito messa ai fornelli, improvvisando una semplice pasta con verdure, ma sentiva lo sguardo del padre sulle spalle. Sapeva che la questione non poteva chiudersi con così poco. - Ci sono delle regole, e lo sai bene. Si morse la lingua prima di rimbeccare. “E le hai decise tutte tu…” - Lo so papà, credevo di aver messo una sveglia all’orologio ma evidentemente mi ero sbagliata, e la situazione mi è sfuggita di mano… E’ la prima volta che succede, prometto che farò più attenzione. - Non sei andata a cercare quel libro, vero? Gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla e vide che il suo volto era molto serio. Chiuse gli occhi per un attimo. - Debora non me lo darebbe mai. E in libreria non ce l’hanno. - Quindi l’hai cercato! - Non ti fidi proprio, vero? Cos’ha che non va quel libro per me? Credi che abbia sei anni? Si era voltata ad affrontarlo, colma di rabbia inesplosa. L’uomo la guardò severamente. - Non rimproverarmi, papà, non stavolta… e spiegami perché me l’hai portato via. Si fermò a riprendere fiato, e per un attimo temette di aver oltrepassato il limite. Gli voltò di nuovo le spalle, mescolando le verdure con noncuranza, in attesa di quell’onda che, era sicura, l’avrebbe colpita di lì a poco. - Quell’autore avrebbe dovuto fare più attenzione a quello che scriveva. Io… sì, l’ho letto, ma quello che ho sentito dopo… non mi è piaciuto. Telket aveva alzato la testa di scatto, ma non si voltò. L’aveva letto? Il suo tono era incerto e troppo coinvolto, e le venne da chiedersi se suo padre non conoscesse di persona quell’autore. - Hai letto tutti i libri? Tutti e sei? - Sì, Telket, li ho letti tutti. La ragazza si voltò, incapace di trattenere il suo entusiasmo. - Allora sai quanto sono meravigliosi, quanto ti sanno avvolgere! Papà, quando li leggo io…sento come se quelle cose capitassero a me, e non ad Avieran! - Avieran… Suo padre sussurrò quel nome con nostalgia, come fosse una parola magica, e per un attimo Telket vide nel suo sguardo la sua stessa passione. Sorrise. - Sì, papà, Avieran…quei libri sono i più belli che io abbia mai letto, e quello che tu dici…io ho sempre considerato quell’autore il migliore in assoluto, non puoi parlarmene così! E io… ho bisogno di leggere quel libro. Per un attimo il silenzio calò tra di loro, e Telket sentì la speranza fiorirle nel cuore, poi l’uomo alzò gli occhi su di lei, il volto severo e lo sguardo cupo. - Proprio per questo te l’ho portato via. Ho tollerato che tu leggessi un mucchio di sciocchezze fino ad adesso, ma ora basta. Ti vieto di leggere quel libro, Telket. La debole luce che la ragazza aveva visto si spense di colpo, e piena di rabbia sbatté sul tavolo la pentola delle verdure, facendolo sobbalzare. - Non capisci niente! Prese la tracolla e corse in camera. Si sentiva esplodere. La rabbia le usciva dagli occhi, sentiva il cuore oppresso e allo stesso tempo il petto che si gonfiava di dolore sotto la pelle. Lanciò sul letto la borsa e si sedette rabbiosamente sul pavimento, incrociando braccia e gambe, e chiuse gli occhi. Ingiusto, ingiusto, ingiusto, ingiusto. Come una litania quella parola le riempiva la mente, risuonando maligna e avvelenando tutto il resto del corpo. Ingiusto. La mattina dopo, invece di recarsi a scuola, andò a nascondersi in biblioteca. Non aveva mai saltato un giorno di lezione, quell’anno, tantomeno all’insaputa di suo padre, e quella fuga le diede una soddisfazione inaspettata. Quella mattina Debora non sarebbe stata un problema, e la ragazza intendeva nascondersi là fino al momento di tornare a casa. Non le importava essere scoperta, voleva finire il libro una volta per tutte e carpirne il segreto, prima che qualcun altro lo prendesse in prestito e lo facesse di nuovo sparire. Si nascose, stavolta nel reparto bambini. C’era un castello-gioco di legno, in un angolo della stanza, una struttura che l’avrebbe celata alla vista. Rubò uno dei pouf dai quali le bibliotecarie leggevano le fiabe ai piccoli lettori, vi si accomodò, felice per una volta della sua bassa statura che le permetteva di accoccolarsi tutta in quel morbido cuscino, e riprese la lettura da dove era stata interrotta. Cullata dalle parole, la mente di Telket si fece tutt’uno con quella di Avieran, e assieme a lui passò la notte a pensare alle parole della vecchia, al viso della bambina bionda e all’enigma che le due cose nascondevano. Quella notte Avieran ripensò alla sua infanzia, alla famiglia che la gente del castello era stata per lui, alle persone che appartenevano al suo passato. C’era stata una ragazza, ricordò Telket, alla quale si era legato da piccolo, e una donna, nelle cucine, che aveva chiamato madre. Nessun padre per lui, tranne il burbero affetto delle guardie e dello stalliere. Orfano, figlio della fortezza, Avieran aveva assorbito le nozioni più svariate, fino a farsi notare dal principe e diventarne l’uomo di fiducia. Era quello il titolo ufficiale, nonostante egli non potesse ancora definirsi completamente uomo per la sua età. La mattina seguente, incapace di trattenersi, era andato in cerca della consigliera del principe, l’anziana donna che aveva generato in lui tutti quei dubbi. Invano chiesi a Feled di non accompagnarmi. Mi conosceva troppo bene per non sapere che avrei avuto bisogno di lui. Anche il principe ci aveva seguiti. Non che fosse un problema, anche se a livello diplomatico la cosa avrebbe generato voci e pettegolezzi. Poco male. Era ora che la gente di Rocca si rendesse conto della vera personalità di Dulediv. Telket assistette al viaggio dei tre giovani attraverso quella città sconosciuta, piena di nuovi profumi e meravigliosi dettagli. Avieran ne fu conquistato, tanto che alla ragazza parve quasi di sentire i rumori del mercato che li attorniavano, i mormorii stranieri e la musicalità di quella lingua affascinante. Assieme al ragazzo tornò nelle stanze della consigliera, sedette innanzi a lei e ancora una volta rimase affascinato dai suoi occhi. Il suo nome era Berin, aveva detto il principe. Mi sorrise con complicità. - Sei qui per quella bambina. - Non è una persona che conosco, saggia. Mi rivolsi a lei come avrei fatto con il mio maestro, senza indugiare nella diplomazia. Non ero Dulediv, e qualcosa in quegli occhi mi suggeriva che le formalità non erano necessarie. - Essa appartiene al tuo passato, Avieran. E’ come una parte di te che ti sia stata tolta quando eri bambino. Una parte della tua vita che io posso percepire come un buco, ragazzo. Trasalii. Qualcosa che mi era stato sottratto. Avevo vissuto la mia vita all’oscuro di questo dettaglio. Cosa mi sarebbe stato rivelato? Un dettaglio insignificante, o qualcosa che mi avrebbe cambiato la vita? Mi vide riflettere, e agitò verso di me la sua mano della vista. - Desideri vederla di nuovo? E mentre me lo chiedeva mi resi conto che sì, lo desideravo. Anche se la mia mente non conosceva quel viso, il mio cuore evidentemente sì. Annuii, e Berin si mosse sorridendo davanti ai miei occhi. Apparve, e io sentii anche la sua voce, una vocina debole e dolce che chiamava il mio nome, sfiorando qualcosa nel mio cuore. Allungò le manine verso il mio viso, allacciandomi le braccia attorno al collo e stringendomi. Ero piccolo. E lei era molto, molto vicino a me. Mi sentivo felice. Completo. Scossi la testa, per scrollarmi di dosso quella visione. - Fa parte della mia famiglia, della mia infanzia. E’ così? Berin annuì solennemente. - Però tu non ricordi la tua famiglia, no? Mi voltai. Feled e Dulediv mi stavano guardando incuriositi. Avevo dimenticato che loro non potevano vedere quella bambina. Come sempre Feled non era riuscito a tenere la bocca chiusa. - Saggia, nessuno conosce la mia famiglia, nemmeno io. La donna scosse la testa, e i suoi occhi si mossero verso il mio principe. Lui annuì, guardandomi negli occhi. - Non è così, Avieran. Qualcuno a Rocca conosceva tua madre, e sostiene che fosse una nobile straniera. La sua voce era colma di rimpianto. Il principe si stava scusando con me per non avermene parlato prima. Lo trovai così assurdo... - E mio padre? - Di lui… non se ne sa niente. Però c’è una voce… S’interruppe, come se non fosse sicuro delle sue parole, e ricambiò lo sguardo della donna. Era fastidioso, oltre che assurdo, come se si fossero messi d’accordo a mia insaputa. Berin annuì. - Lei…è tua sorella. Gemella, probabilmente. Una gemella? Telket sentì un brivido lungo la schiena. Per un attimo Avieran era stato felice, l’aveva sentito, e in quell’attimo anche lei lo era stata. Sapere che il suo eroe stava per incontrare una parte della sua famiglia era…confortante. Si stiracchiò come un gatto, poi riprese la lettura sorridendo. - Cosa dice quella voce? - A proposito di tuo padre. Sembra che sia stato lui a portarla via, ma nessuno sa dove, né perché. Così, una parte della mia famiglia era ancora in vita, da qualche parte. Non ero sicuro di volerli incontrare. Strinsi i pugni e feci per replicare, quando la donna abbandonò il suo sorriso e mi guardò severamente. - Perderai te stesso se ripudi il tuo passato, Avieran. Per essere completo hai bisogno di lei. Siete facce della stessa medaglia. - Dov’è? Tu sai dove quell’uomo l’ha portata? - L’ha strappata al suo mondo- la voce della donna era severa – per portarla dove non è felice. Tu puoi riportarla indietro, se lo vuoi. Un doloroso silenzio calò su di noi, e tutti e tre si voltarono verso di me, in attesa di una reazione. Era bizzarro vedere come Dulediv abbandonasse la sua maschera di principe quando era con me e Feled. - Si tratta di un’altra missione? Non sono qui per mio volere, ma al servizio del mio principe. Il ragazzo scosse la testa schernendosi. - Questa caccia non è niente più che un capriccio, che non esiterei a fermare per te, Avieran. Ci sono cose più importanti della caccia. Quanti dei principi che avevo incontrato avrebbero risposto così? Gli rivolsi un sorriso, fiero della lealtà che mi concedeva nonostante il mio rango. - La tua mente è ferma, e così quella dei tuoi amici: in esse è forte il soffio del Potere. Non è un viaggio del corpo, ma della mente. Devi chiamarla, Avieran, portarla qui. E loro ti aiuteranno. Li guardai negli occhi. Feled. Il mio compagno da sempre, con i suoi segreti e i suoi trucchi. Dulediv. Il principe che servivo, l’amico che avevo scoperto in lui. Prima ancora che potessi rispondere, lei aveva afferrato le mani dei miei compagni e le aveva posate sulle mie spalle. - Chiudi gli occhi, Avieran. Il suo nome è…Telket. Telket rimase di sasso. Nonostante la sua avversione per quei libri, suo padre le aveva dato il nome della gemella perduta di Avieran. Fu ancora più contenta di avere un nome così particolare. Si mosse, sentendo un formicolio ai piedi, e guardò l’orologio. Erano passate già due ore da quando era uscita di casa. Si sedette a gambe incrociate con il libro in grembo e fece per riprendere la lettura, quando notò che le punte delle dita le stavano diventando nere. Strofinò le lettere sulla pagina, ma non erano quelle a rilasciare inchiostro. Eppure sui suoi polpastrelli erano comparse minuscole lettere, ammucchiate l’una sull’altra in un groviglio scuro. Invano agitò la mano per scrollarsele di dosso: le linee di lettere si muovevano come tralci sotto la sua pelle, serpeggiando fino al polso e sempre più su. Telket rimase a fissarle a occhi sbarrati, incapace di reagire, e improvvisamente le righe presero a srotolarsi, fluttuando nell’aria e trascinandosi dietro frammenti del suo corpo. Guardò affascinata le sue dita dissolversi in una lunga spira di caratteri che ondeggiavano davanti ai suoi occhi, come a scrivere per lei una nuova storia. E Telket iniziò a fluttuare nell’aria, mentre il suo corpo tornava alla sua forma originaria: parole. Linee e linee di parole iniziarono ad arrotolarsi su se stesse, mescolandosi ancora e ancora, e iniziarono a entrare nel libro, nel mondo in cui lei era nata. Attorno a lei la biblioteca svaniva, inghiottita dalla nebbia, e la ragazza chiuse gli occhi, stordita. Sentì il suo intero corpo formicolare, il libro scivolarle dalle gambe e il pouf su cui era seduta svanire assieme al resto. Trattenne il respiro, poi… aprì gli occhi, e Avieran era davanti a lei. Com’era successo mille volte prima, le loro menti divennero una cosa sola, e lui sorrise, nel vederla, nell’incontrare finalmente di persona la sua gemella perduta, nel tornare, infine, completo. Telket sgranò gli occhi, il petto colmato da un’emozione complessa e dolorosa, ma così dolce… Leggeva se stessa in quei lineamenti, come in uno specchio, e nulla sembrava più perfetto che ritrovarvisi. Lo abbracciò, troppo emozionata per parlare, e Avieran la strinse a sé. Nel petto della ragazza si era infine sciolta quella frenesia, quella ricerca. Aveva trovato ciò che cercava. Figlie della stessa penna, la ragazza e la storia si unirono in un unico groviglio, per poi dipanarsi e dare vita a quell’universo meraviglioso, di cui finalmente lei era tornata a far parte. RE: Spire di Parole - Tintaglia - 30-11-2009 (29-11-2009, 22:50)Iku Ha scritto: Dato che mi sono piazzata tra i primi dieci...che me la tiro un sacco...e che stasera sono proprio giù...eccovi il racconto. Peggio per loro...Non essere giù! Piazzarsi fra i primi dieci non è un risultato da ridere, sai? ![]() RE: Spire di Parole - Iku - 30-11-2009 ![]() ![]() |