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L’inevitabile destino di Fitz

AVVISO DI SPOILER
 (Il viaggio dell’assassino, L’uomo ambrato)

Molti appassionati lettori e lettrici di Robin Hobb hanno espresso il loro disappunto per il modo in cui è stata posta la parola ‘fine’ alle avventure di Fitz. Nel Destino dell’assassino — ultimo volume della trilogia L’uomo ambrato — l’ex apprendista assassino e bastardo reale ritrova l’amore che era stato costretto ad abbandonare sedici anni prima, convolando a giuste nozze con l’ormai plurimamma Molly; tutto quello cui aveva rinunciato alla fine de Il viaggio dell’assassino — la donna amata, la figlia Urtica, una vita libera e l’affetto della madre putativa Pazienza — gli viene ora generosamente e inaspettatamente restituito, con estrema sorpresa dei lettori che avevano imparato a convivere con le rinunce di Fitz e che prospettavano per lui ben altro futuro.

La sua sofferta posizione di reietto, costretto a celarsi sotto un’identità fittizia e a servire il trono dei Lungavista consacrandovi la piena esistenza, era stata ampiamente giustificata da Fitz stesso, che aveva sempre agito liberamente e che, con la forza della prima persona, aveva presentato le sue scelte come giuste ai lettori. In realtà, suscitano non poca perplessità alcune posizioni radicali assunte dal nostro, come quelle di celare la propria sopravvivenza a Urtica e soprattutto a Pazienza, eccentrica vedova di suo padre che per proteggerlo era tornata a corte e che si era presa cura del suo corpo martoriato. Con forza la Hobb aveva però negato a Fitz la possibilità di riallacciare questi e altri legami, a causa della cieca fedeltà dovuta al trono, del rapporto con Occhi-di-notte e dell’odio diffuso nei Sei Ducati per la magia dello Spirito. Molly, poi, era del tutto al di là della sua portata, ormai sposatasi con Burrich: entrambi infatti credevano morto il ragazzo. Al bastardo, ora noto come Tom lo Striato, non restava della sua vecchia vita altri che il Matto, Stornella a scaldargli di tanto in tanto il letto e il figlio adottivo Ticcio tirato su con l’aiuto di Occhi-di-notte.

Date queste premesse e nonostante la nuova chiamata a servizio dei Lungavista, si capisce lo sconcerto di chi — al termine dell’ultimo romanzo — trova Fitz pienamente restituito alla sua vita precedente, come se più di quindici anni — e innumerevoli pagine difficili da digerire — non fossero trascorsi. La Hobb, nel ripristinare la vecchia vita di Fitz, ha agito con precisione chirurgica, cercando come ogni buon medico di raggiungere l’obiettivo senza pregiudicare l’organismo su cui interviene. Con un’attenta operazione narrativa ha portato al centro della scena il Matto e una nuova cerca, quella del drago Ardighiaccio; fra la minaccia dei Pezzati, gli stravolgimenti di Borgomago (altrove narrati) e i pericoli dell’Arte, ha costruito la trilogia dell’Uomo ambrato sull’ormai rivelato amore del Matto per Fitz. A tal proposito il nostro protagonista è doppiamente dilaniato dalla tensione fra la lealtà al Matto e ai Lungavista — in specie Umbra — e la consapevolezza che per raggiungere il suo scopo il Matto deve morire, adempiendo così a una sua profezia.

La grandissima abilità della Hobb si coglie solo a trilogia finita: mentre il lettore insegue avido la narrazione pagina dopo pagina, l’autrice agisce silenziosa e precisa come uno dei suoi assassini, rimuovendo tutti gli ostacoli sulla strada di Molly e della vecchia vita di Fitz. Per prima se ne va Stornella, all’inizio della trilogia: la sterile ma vivace cantastorie è sposata, e quando Fitz lo scopre non lo tollera e la caccia dal suo letto e dalla sua vita: l’uomo che non aveva esitato ad abbandonare sua figlia si riscopre moralista e si preoccupa per l’onore di uno sconosciuto — e cornuto — Messer Pescatore. Verso la fine del Risveglio dell’assassino, la Hobb — sempre restia a far morire violentemente i suoi personaggi — celebra la dipartita dell’ormai vecchio Occhi-di-notte in un’azione di salvataggio del principe Devoto. Il principale legame di Fitz viene così reciso, con molto più dolore dei lettori che del nostro, a giudicare dalle poche lacrime e parole spese. L’evento ha dell’incredibile: quasi nessun protagonista muore nei romanzi della Hobb — possiamo ricordare Nasuto, Sagace [SPOILER - La nave del destino] e Kennit — ma siamo comunque solo all’inizio.

Nel secondo romanzo, La furia dell’assassino, l’autrice risolve altri spinosi problemi di Fitz primi di tutti quelli delle sue magie: il trono Lungavista si lancia in una politica di apertura verso lo Spirito — e così Fitz non è più un reietto — e il vecchio Umbra riesce finalmente a padroneggiare l’Arte — sollevando in parte Tom dal peso di essere l’unico a poter addestrare una confraternita. Fitz ritrova anche la salute perduta, venendo guarito con l’Arte dalle ferite riportate combattendo Regal: sia gli attacchi di tremiti dovuti all’avvelenamento nelle Montagne, sia i postumi dolorosi delle torture subite a Castelcervo scompaiono. Fitz, spesso descritto come precocemente invecchiato, riceve indietro il suo corpo sano e giovane, quasi la sua sofferenza fosse idealmente legata a quella del vecchio Occhi-di-notte. All’autrice spietata poco importa che nel frattempo il Matto abbia dichiarato invano il suo amore per Fitz e profetizzato la propria morte: nulla deve ostacolare il ritorno di Molly.

E nulla lo ostacola nel Destino dell’assassino: in lande lontane e perdute, dopo una lunghissima uscita di scena, riappare Burrich, vero e proprio deus ex machina: è vecchio e quasi cieco e ha ripreso a bere — non proprio il massimo per Molly. Molto meglio farlo morire eroicamente, raccomandando moglie e figli a Fitz. Tralasciando altre questioni minori, talvolta anche piuttosto improbabili — Ticcio diventa cantastorie e non ha più bisogno di Fitz, Stornella si scopre miracolosamente incinta e si vota alla fedeltà coniugale, Devoto si sposa e prosegue salda la linea dei Lungavista — rimane ancora un ostacolo quasi insormontabile tra Fitz e Molly: il Matto.

La Hobb non sa cosa farne di lui, è chiaro: dopo aver imperniato la trilogia sulla sua missione e l’intera saga sul suo amore per Fitz non può semplicemente ucciderlo: ancor più di Occhi-di-notte ha incontrato il favore del pubblico e la sua dipartita — dallo steso precognizzata — farebbe solo inferocire i lettori, senza nemmeno il fascino del colpo di scena. Con una sadica maestria degna delle più grandi menti letterarie, l’autrice pone finalmente Fitz — per tutta la vita ingrato ed egoista — al servizio del Matto, premuroso e attento come non mai. L’amico muore atrocemente torturato lasciandolo privo del suo ultimo legame? Fitz non si dà per vinto e lo riporta alla vita, amorevole ne cura la convalescenza e ne assiste la guarigione, arrivando a offrirgli una vita insieme, a Castelcervo o dove il Matto desidera. Questi, però, inaspettatamente rifiuta, sconvolto dalla morte e resurrezione e ancor di più dalla tortura subita. Qualunque sua azione, inoltre, è mossa dall’amore per Fitz e non riuscirebbe mai a privarlo della vita che desidera per soddisfare il proprio sentimento: ciò vorrebbe dire far precedere il proprio bisogno al bene dell’altro, cosa che il Matto non farebbe mai e che espressamente condanna dicendo a Fitz: “Posso amarti, Fitz, ma non posso permettere a quell’amore di distruggere te e ciò che sei” (cfr. Il destino dell’assassino, cap. 34).

Nessuno potrebbe dire che Fitz non ci abbia provato o che si sia dimostrato ingrato con lui come anni prima con Urtica e Pazienza. È il Matto a non volerlo, a spezzargli il cuore! A un Fitz sconvolto per il rifiuto dell’amico — che il tapino aveva probabilmente cominciato ad amare — non rimane che accettare l’ultimo dono del Matto, le passioni perdute per Molly e Urtica cui Fitz aveva rinunciato nel Viaggio dell’assassino, riversandole in un drago di pietra. Riavutele, il ragazzo non può che tornare da Molly: non ha più il Matto od Occhi-di-notte a trattenerlo, Burrich è morto con una parola buona per lui che è tornato alla sua vera identità: lo Spirito non è più un abominio da nascondere, non ha amanti saltuarie di cui vergognarsi o figli da tirare su, il trono è saldo e il suo corpo giovane.

In poche parole, la Hobb ce l’ha fatta: disfacendo, novella Penelope, il suo stesso ordito di solitudine per Fitz, seminando un paio di morti eccellenti e dando un ben preciso zuccherino ai lettori — la ricongiunzione con Pazienza — riporta Fitz fra le braccia di Molly, come aveva sempre voluto fare. L’operazione le riesce perfettamente e il lettore — benché perplesso e talvolta deluso — non può che arrendersi alla perfezione della trilogia dell’Uomo ambrato: ancora una volta l’autrice ci dimostra di essere la sola padrona della storia, facendo forse passare Fitz per ingrato ma rivendicando di prendere scelte narrative impreviste e anche sgradevoli. Il lettore, che aveva sofferto d’amore con il Matto, non può che abbassare le armi in un gesto di resa: per volontà dell’autrice Molly è il futuro di Fitz, decisione non delle ultime pagine ma piano antico indissolubilmente legato alla trama della trilogia. Senza tante morti novità impreviste, la Candelaia non avrebbe riacchiappato il Bastardo di Chevalier, ma noi non avremmo avuto la mirabile trilogia che teniamo fra le mani.


Marco “Umbra” Longobardo
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