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La fedeltà come chiave di lettura

AVVISO DI SPOILER
 (L’apprendista assassino, L’assassino di corte, Il viaggio dell’assassino)

“La fiducia non è fiducia fino a quando non è completa.”
L’assassino di corte, cap. 4


Fides (in latino fiducia e fedeltà) mi sembra la parola fondante della trilogia dei Lungavista di Robin Hobb, il messaggio ispiratore di tre ottimi libri da cui parte il mio ragionamento. Non riassumerò per ovvi motivi la trama, quindi chi non ha letto non cerchi di seguirmi.
La trilogia dei Lungavista ha un’ambientazione relativamente chiusa che gravita interamente attorno al ben determinato nucleo della Corte di Castelcervo; è questo un dato particolarmente evidente nei primi due romanzi, ma a ben vedere qualunque incursione esterna trova la sua intima giustificazione negli accadimenti della Corte. Tale considerazione non ha valenza meramente spaziale, ma soprattutto ideale: la trilogia infatti può ridursi a una lotta per abbattere o conservare il trono Lungavista nell’arena della Corte. In questa cornice — più punto di partenza che di arrivo — i personaggi vivono e si relazionano prevalentemente in base alla fedeltà alla corona, a famiglia e amici, persino alla memoria dei defunti; da questa fedeltà, che come fiducia maschera spesso amore, nascono tutti quei legami che — come dice altrove l’autrice — “tengono insieme il mondo e il tempo” (vedi Il destino dell’assassino, cap. 15).

Dal momento che il punto di vista narrativo è quello di Fitz, da lui deve partire la nostra breve disamina. Fitz è posto dalla sua stessa nascita adulterina al di fuori della famiglia, ignora chi sia sua madre, non conosce il padre che ha rovinato politicamente. Il primo sentimento con cui da bambino si confronta — e conforta — è la fiducia: trova infatti in un animale, il cucciolo Nasuto, il primo amico con cui crescere e giocare (vedi L’apprendista assassino, cap. 2). Su di lui veglia il più fedele servitore e compagno d’armi di suo padre, il cupo Burrich, che lo alleva in nome dell’antica fedeltà dovuta a Chevalier e alla sua morte sopravvissuta. Nasuto viene però presto sottratto alle cure del ragazzo proprio da Burrich che teme il legame dello Spirito che fra loro si è formato: si dice infatti che “un ragazzo dotato dello Spirito userà i cani del suo padrone per i propri scopi e non avrà mai nessuna vera lealtà per il padrone, ma solo per il cane cui è legato” (vedi L’assassino di corte, cap. 30).

Il rapporto fondamentale del ragazzo, per la sua crescita e lo sviluppo della trama, è però quello con il re-nonno Sagace: impossibilitato dalle sue origini spurie a essere un nipote, Fitz ancora bambino sceglie di diventare il più fedele e temibile dei servitori, un assassino. Ci si potrebbe dilungare sulla reale portata del discernimento infantile qui in rilievo, ma sarebbe un arrovellarsi fine a se stesso; ciò che realmente conta è che stringe un patto con il sovrano, conviene di ubbidirgli incondizionatamente ricevendo in cambio sostentamento, protezione e fiducia. Fitz dismette infatti totalmente il proprio arbitrio a favore di quello del re, ma Sagace si espone al rischio di un assassino libero di girovagare per la sua fortezza: il sentimento a fondamento di un simile senso di fedeltà non può che essere biunivoco, perché da un lato Sagace ha fiducia che Fitz non gli si rivolterà contro ma eseguirà lealmente gli ordini ricevuti, dall’altro Fitz si fida della necessità e saggezza di questi — trovando cioè giustificazione per l’atto di omicidio nella volontà del re (vedi L’assassino di corte, cap. 20: «È tutta una questione di fede, ragazzo. Tu credi nel tuo re? E il tuo re deve essere per te qualcosa di più del tuo fratellastro, o di tuo nonno. Dev’essere più del buon vecchio Sagace, o del bravo e onesto Veritas. Deve essere il re. Il cuore del regno, il mozzo della ruota. Se è così, e se tu hai fede che vale la pena di conservare i Sei Ducati, che si compie il bene di tutto il nostro popolo dispensando la giustizia del re, allora, ecco.» «Allora puoi uccidere per lui.» «Esattamente.»). Il maestro di Fitz nell’arte dell’assassinio, Umbra, precisa anche che non vi è posto per altri legami, per altre fedeltà rispetto a quella verso Sagace, per entrambi e per tutto il tempo della loro vita: «Apparteniamo al re, ragazzo. Uomini del Re. Le nostre vite sono sue. Ogni momento di ogni giorno, sia che dormiamo o siamo svegli. Non hai tempo per le tue preoccupazioni. Solo per le sue» (vedi L’assassino di corte, cap. 4).
L’atro Umbra ricopre quasi il ruolo di alter-ego di Sagace, preposto all’istruzione di Fitz nell’arte dell’assassinio e in quella ancora più importante della fedeltà. Egli stesso deve assoluta fedeltà al re e pretende la stessa da Fitz: fedeltà e soprattutto fiducia nella saggezza delle scelte prese dal maestro; il vecchio assassino è sinceramente affezionato al bastardo reale, ma non riesce a vedere una maniera diversa di vivere dalla fedeltà al regno e — di riflesso — ai suoi insegnamenti (vedi L’assassino di corte, cap. 20: «Non so dove sia la tua fede. Avevo pensato che fosse in me. La fiducia che io sapessi più di te, e che fossi leale al mio re. […] Ritengo che un maestro abbia il diritto di aspettarsi fede e fiducia dal suo pupillo»). Naturalmente la fedeltà che il ragazzo deve nutrire nei confronti di Umbra è minore di quella verso il re — in un rapporto quasi di necessaria derivazione — e pertanto il rapporto suddito/re prevale su quello allievo/maestro (vedi su tutti L’apprendista assassino, cap. 5). Vincoli uguali legano del resto Umbra al trono, e i due si ritrovano spesso con gli stessi interrogativi ed esperienze; per questo spetta al vecchio assassino chiarire fin da subito qual è il contenuto del patto fra loro e il trono: «Il re ti nutre, ti veste, ti fa istruire. E tutto quello che ti chiede in cambio, per ora, è la tua lealtà. Più tardi chiederà il tuo servizio. Queste sono le condizioni a cui ti insegnerò. Che tu sia uomo del re, completamente leale al re» (vedi L’apprendista assassino, cap. 4).

Sulla fiducia e la fedeltà si basano anche gli altri rapporti fondamentali di Fitz, quelli con Pazienza, Burrich, il Matto e Occhi-di-notte. I primi due — vedova e principale sodale del padre di Fitz — sono a corte i più attenti protettori del ragazzo, in nome del debito di fedeltà verso Chevalier. Burrich in particolare, facendo una scelta simile a quella di Fitz, ha rifiutato qualunque altro legame in nome della lealtà dovuta a Chevalier, rinunciando a una vita che potesse dire propria e trasponendo il proprio impegno nella persona di Fitz (vedi Il viaggio dell’assassino, cap. 2: «Per tutta la vita, Burrich, ti sei occupato di qualcun altro, mettendolo prima di te, sacrificando tutto quello che avevi. Leale come un cane»). La fedeltà ancora una volta ha un carattere totalizzante, un’intrinseca natura apicale nella scala assiologica di chi la prova, che porta a far venire meno — se in contrasto — ogni altro obbligo o rapporto (vedi ex plurimis L’apprendista assassino, cap. 4: «Un cavallo non può portare due selle. Per quanto lo desideri»).
Fiducia indiretta è anche quella di Fitz verso il Matto: sono entrambi fino in fondo devoti a Sagace, e in questo — e nella giovane età — trovano un terreno comune, un legame che permette loro di fare affidamento l’uno sull’altro, almeno fino a quando non vengono a scontrarsi negli obblighi verso il sovrano (vedi L’assassino di corte, cap. 26: «Prometto che se il mio re viene portato via e io non vado con lui, tradirò ciascuno dei tuoi segreti. Uno per uno»). Più avanti nella narrazione, come sappiamo, le cose sono destinate a cambiare.
Quella che fino a qui si potrebbe configurare come fedeltà indiretta — rectius riflessa — si trasforma però sempre in fiducia diretta, da cui nasce un legame autonomo e di pari grado: nessuno al termine della trilogia potrebbe infatti mettere in dubbio l’amore di Burrich, del Matto e di Pazienza per Fitz.

Diretta, incondizionata e gratuita fin da subito è la fedeltà che Fitz accorda invece allo zio e re-in-attesa Veritas: fra loro si instaura un rapporto perfettamente speculare di fiducia, in cui la fedeltà non viene più in evidenza a seguito di un ordine, bensì sgorga da una leale e spontanea collaborazione. Veritas non comanda mai nulla, chiede invece, e il ragazzo non può che nutrire profonda e istintiva riconoscenza per questo; la fiducia reciproca è tale che Fitz permette al principe di penetrare con l’Arte nella sua mente, e in cambio Veritas lascia all’assassino di corte i propri segreti perché ha fiducia nella lealtà del ragazzo (vedi L’assassino di corte, cap. 13: “Con una parola mi diede la sua fiducia, e con essa la sua certezza che non avrei mai fatto nulla per nuocergli. Sembra semplice, ma per un re-in-attesa lasciare che l’assassino di corte abbia un segreto era un atto eccezionale. Anni prima suo padre aveva comprato la mia lealtà […]. Il semplice atto di Veritas valeva ora per me più di tutte queste cose. L’amore che avevo sempre provato per lui non ebbe più confini. Come potevo non fidarmi di lui?”).
Anni dopo Veritas mette in atto su più larga scala questo scambio di fiducia, scegliendo di sacrificarsi per i Sei Ducati e chiedendo che Fitz faccia lo stesso. Non è una mancanza di amore – né il chiedere né il dare – ma la prova che la fedeltà è un qualcosa di doloroso, un incontro travagliato e inevitabile fra due volontà. Dirà Veritas a Fitz: «Prenditi cura di te stesso meglio di quanto abbia fatto io. Ti amavo, lo sai […]. Malgrado tutto quello che ti ho fatto, ti amavo» (vedi Il viaggio dell’assassino, cap. 39).

Un rapporto simile di unione di menti si ha con il lupo Occhi-di-notte grazie allo Spirito; fin dal rapporto di Fitz con Nasuto, il bastardo aveva saputo che era pericoloso usare la sua magia — esecrabile addirittura — e Burrich era arrivato a rinnegare parzialmente la fedeltà dovuta alla memoria di Chevalier per farglielo capire. Perché? Perché il legame che così si crea tra uomo e bestia — un legame di fedeltà assoluta — può portare l’uomo a perdere totalmente se stesso nella volontà dell’animale, a non essere più padrone del proprio destino. È quello che succede di fatto nel rapporto con Sagace: Fitz si perde totalmente nella volontà del proprio sovrano. Quando a Sagace subentra Veritas — pur con le differenze finora esposte — il discorso non cambia: Fitz rischia tutto per il re-in-attesa, esattamente come Occhi di Notte rischia tutto — e Nasuto si sacrifica — per Fitz (vedi L’apprendista assassino, cap. 24). La fedeltà si configura ancora una volta come abdicazione alla libertà di scelta e fiducia nelle scelte dell’altro. Fitz stesso instaura il paragone, dicendo di Occhi-di-notte: «una cosa è essere pronti a morire per un altro. Un’altra è rinunciare a vivere la propria vita. È questo che lui mi offre. La stessa lealtà che io offro al mio re» (vedi Il viaggio dell’assassino, cap. 16). I pericoli di una simile vicinanza, come accennavo, sono però sempre alle porte. Una personalità in formazione rischia di estinguersi nella fedeltà all’altra, il pericolo corso da Fitz in Occhi-di-notte quando era ancora ragazzo e soprattutto con Sagace (a proposito del rapporto col ragazzo e della progressiva fusione delle loro personalità, il lupo dice in un primo momento: «Noi non condividiamo. Noi siamo uno. Io non sono più un lupo, tu non sei più un uomo. Cosa siamo insieme, non so come chiamarlo.» Il viaggio dell’assassino, cap. 13). Con la crescita spirituale del nostro protagonista, tale pericolo viene meno, e questi può quindi affermare di aver sconfitto il pericolo di perdersi nella personalità del lupo (vedi Il viaggio dell’assassino, cap. 19: “Adesso eravamo entrambi più saggi. Potevamo condividere, ma l’uno non poteva diventare l’altro. Non senza che perdessimo tutti e due”). Ciò non significa che la scelta finale, anche e soprattutto nei momenti più oscuri di disperazione, debba prescindere dalla fiducia negli altri (vedi su tutti L’assassino di corte, cap. 32); fiducia e fedeltà devono invece essere il mezzo per consolidare la propria personalità senza disperderla.

È importante a questo punto notare come l’offerta di fiducia stia quasi sempre alla base dell’acquisto della fedeltà: re Sagace, addestrando un assassino nel suo castello, espone la sua vita a ingenti pericoli; Veritas — come abbiamo visto — conquista la lealtà di Fitz portando in dono la propria cieca fiducia; sempre il re-in-attesa mostra la propria anima nuda alla sposa Kettricken “offrendo fiducia per costruire fiducia” (vedi L’apprendista assassino, cap. 23). Questi e altri esempi indicano come per Robin Hobb la fedeltà non possa essere in nessun modo imposta, ma debba nascere da un gesto libero di fiducia; a tal proposito Burrich, attingendo per una metafora dal mondo animale, dice: «Con la paura non si insegna molto che valga la pena di conoscere. Chi cerca di insegnare con la violenza e le minacce è un cattivo insegnante. Immagina di domare un cavallo in quel modo. O un cane. Perfino il cane dalla testa più dura impara meglio da una mano aperta che da un bastone» (vedi L’apprendista assassino, cap. 15). La fedeltà artificiosa, infatti, è un abominio che porta sempre al male, poiché è nient’altro che una distorsione, come dimostra la vicenda di Galen, reso dall’Arte fanaticamente e perversamente devoto a Chevalier (anche in questo caso il sentimento prosegue dopo la morte del principe; vedi L’apprendista assassino, cap. 12).

La nostra trattazione non sarebbe però completa se il nostro sguardo non si posasse ora sul male che minaccia nel regno Lungavista: il traditore Regal e soprattutto i Forgiati. Il primo, principe cadetto, incarna la rottura di tutti i legami di fedeltà cari a Fitz, principalmente quello con il padre-re Sagace (vedi su tutti L’assassino di corte, cap. 29: “Avevo sperato di salvare il mio re da un principe sleale. Avrei dovuto sapere che non c’era modo di salvare un padre dal tradimento del figlio”), con il fratello e quello con i fedeli servitori Fermo Serena e Giustino, usati alla stregua di semplici strumenti. I Forgiati, invece, invisibili allo Spirito, rappresentano il male come assenza di fedeltà e fiducia: essi sono uomini che non perdono né la loro sanità mentale — comprendono come tutti — né la loro umanità in senso stretto — in loro c’è contemporaneamente di più e di meno che negli animali; il loro comportamento è incurante di ogni legame, non riconoscono parenti e amici, non rispettano niente e nessuno, “all’interno dei loro stessi gruppi non c’era alcuna lealtà” (vedi Il viaggio dell’assassino, cap. 5). Essi sono privi di fiducia negli altri uomini e soprattutto sono incapaci di provare fedeltà e qualsivoglia sentimento etero diretto, chiusi in qualcosa di più cupo dell’egoismo ma differente dalla malvagità in senso stretto (vedi ex plurimis L’apprendista assassino, cap. 10).

Fedeltà e fiducia fondano i legami vitali da un lato, dall’altro il male li disconosce e li spezza incurante. Questa divisione manichea potrebbe attagliarsi per sintetizzare l’intera trilogia, ma sarebbe una semplificazione incompleta: più importante è forse l’opposizione fra fiducia liberamente concessa da cui deriva una fedeltà pura e spontanea, e il pericolo di smarrire il nostro discernimento per seguire acriticamente gli ordini altrui, cullandoci in una comoda e cieca fiducia che ci assolve preventivamente da ogni peccato. Pericoli, come accennato, sempre presenti nelle vicende dei nostri protagonisti, che caratterizzano il mondo dei Sei Ducati e contribuiscono a renderla originale rispetto ad ambientazioni simili di colleghi altrettanto illustri — su tutti Lois McMaster Bujold, Jacqueline Carey, George R. R. Martin — che fondano però le loro ambientazioni cortesi su diversi presupposti. La fedeltà si propone invece, a nostro avviso, come strumento ermeneutico per comprendere la trilogia dei Lungavista e il senso di fatalità che la percorre, per apprezzare la maestria di Robin Hobb e la grandezza della sua Opera.


Marco “Umbra” Longobardo
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