A cena con Robin Hobb - Giu.10
A cena con Robin Hobb - Giu.10 |
Una città elegante, un ristorante all’aperto, una notte umida e calda: le condizioni ideali perchè un drago cali fra i mortali riuniti a tavola, e con sguardo acuto individui la donna che ha volato per incontrare: si chiama Robin Hobb, e ha fatto volteggiare la sua magnifica stirpe nei cieli luminosi di un altro mondo. Il drago la studia, si sistema dritto di fronte a lei, e parla. Alcuni sostengono che ogni scrittore nasce con una e una sola storia che sente di dover assolutamente raccontare; col tempo, matura e riesce a renderla sempre meglio sulla pagina. E’ d’accordo? Se è così, qual è la sua storia? RH: Non so se sia davvero così, ma è vero che c’è un tema che più mi affascina fra tutti, il medesimo che ricorre in tutti i romanzi: le memorie del sangue [Blood Memories!]. Sono convinta che parte di ciò che impariamo verrà ereditato dai nostri discendenti. Faccio un esempio: io sono sposata con un marinaio e mio figlio si è rivelato bravissimo fin da piccolo a fare i nodi. Io invece mi sono esercitata tanto… e rimango un disastro. Ma d’altra parte, non ci sono marinai fra i miei antenati. Il talento di mio figlio deve essere ereditato! Perché il genere fantasy, per raccontare le sue storie? RH: Detto in breve, per la sua universalità. Il fantasy costituisce una sorta di “lingua universale”che può essere compresa da chiunque. Un’affermazione forte, per un genere letterario spesso definito “escapista”, di intrattenimento fine a sé stesso… RH: Faccio un esempio. Immagina che io inizi a raccontare: «Una volta, in un’antica città, l’uomo più ricco del mondo andò al mercato e per caso si imbatté nel più povero fra i poveri, che gli domandò…» Vedi? L’immaginazione corre già. “L’uomo più ricco del mondo” e “il più povero fra i poveri” sono figure universali e cadiamo preda della curiosità di conoscere il resto della loro storia. Se invece avessi detto «Un giorno Bill Gates andò al supermercato e incontrò l’uomo più povero…», probabilmente avresti strabuzzato gli occhi e ti saresti domandato «Ma come, Bill Gates va di persona a fare la spesa?» Questo per dire che è proprio il fantasy in sé a permettere di rendere godibile e interessante per tutti la storia. A volte mi domando se noi europei, quando leggiamo fantasy “classico”, insomma di ambientazione medievaleggiante o celtica, veniamo affascinati da “un mondo che è stato”, mentre gli americani da “un mondo che non è mai stato”. RH: Ma perché, da dove pensi che veniamo noi americani?! [Ride] Abbiamo tanta di quella Storia in comune… che abbiamo in comune anche l’immaginario. Già: la Storia. Alcuni elementi dei suoi romanzi sembrano trattare di tematiche ben precise. Alcuni esempi: Chalced e lo schiavismo; la lotta fra patriarcato e femminismo; Gernia e la Frontiera Americana… La Storia reale è una semplice fonte di ispirazione, oppure a volte i suoi romanzi vogliono “commentare” delle tematiche storiche? RH: La Storia costituisce un enorme magazzino di racconti, personaggi, eventi, situazioni. Mi interessa di più commentare il presente: per esempio lo “scontro fra culture”. Come qualche lettore ha notato, la storia di Nevare parla anche della situazione di noi americani rispetto alle altre culture, Medioriente in particolare. Per quanto riguarda la costruzione dell’ambientazione, è evidente che si tratta della trilogia più elaborata. RH: Vero. È la trilogia per cui ho svolto maggiori ricerche per documentarmi. E la cosa più geniale è proprio di non contrapporre Bene e Male, ma due culture diversissime, forse incompatibili, ciascuna con dei valori estremamente forti. RH: È ciò che mi prefiggevo, proprio così. Ho studiato molto prima di iniziare a scrivere la storia di Nevare. Inizia con una cultura, Gernia, che si porta inesorabilmente in vantaggio sui propri avversari grazie alla supremazia tecnologica, cioè le armi da fuoco. E così ecco che gli avversari di Gernia perdono terreno e sono costretti a espandersi in altre direzioni. Ma un’altra popolazione riesce a rimontare lo svantaggio sviluppando una propria tecnologia: la magia. Come cattolico mi domando spesso: la religione sembra essere divenuta meno importante nella vita reale di molti lettori, mentre è sempre presente nelle ambientazioni costruite da tanti autori fantasy? RH: Sono cattolica anch’io, ma non è per questo che la religione è indispensabile in un mondo fantasy. Per dirla in breve, si tratta di realismo dell’ambientazione. Descrivere un mondo alternativo senza delineare le credenze religiose dei suoi abitanti, è come pretendere di proporre un’ambientazione senza dotarla di un sistema economico. Dal punto di vista narrativo, vi è un’alternativa: inserire i personaggi nel contesto di un’ideologia forte. Come si diceva, è il motore narrativo della trilogia del Figlio soldato: la contrapposizione fra due ideologie forti e incompatibili, con il protagonista preso nel mezzo. Sembra un approccio quasi da antropologi. RH: [Ride] Ho sempre avuto un forte interesse per l’antropologia. La trilogia del Figlio soldato è stata quindi la più impegnativa da scrivere? RH: No, non direi. Ho incontrato molta più difficoltà nello scrivere Cloven Hooves, per via della sua narrazione in prima persona al tempo presente. Come mai aveva scelto questa forma, allora, se era così faticosa da utilizzare? RH: [Ride] Era la più adatta per quella storia. Vorrei tornare sull’argomento della lotta fra Bene e Male: per molto fantasy “classico”, questo è il tema ricorrente, mentre nei suoi romanzi sembra tutto sommato secondario rispetto al realismo delle diversità culturali o dell’approfondimento psicologico. Possiamo dire, fra serio e faceto, che la sua narrativa si colloca “beyond good and evil”? RH: «Well, for me it was never about that!» [Risponde d’istinto: «Be’, ma per me non è mai stato il punto cruciale!»] Non mi interessa contrapporre “buoni e cattivi”, ma capire e descrivere realisticamente cosa sta dietro il comportamento dei miei personaggi. Da questo punto di vista, il caso più complesso è probabilmente quello di Kennit. RH: È un personaggio su cui ho lavorato davvero duro. Il risultato è straordinario. La caratterizzazione di Kennit sembra davvero tratta da un manuale di psichiatria. RH: Ciò che Kennit ha subito nell’infanzia lo segna per sempre. Non si può capire Kennit senza tenere questo in considerazione. Per esempio la paranoia e l’incapacità di fidarsi di chiunque. In fondo al suo cuore, Kennit rimarrà sempre il bambino che è stato tradito e violentato. RH: Le azioni di Kennit sono inevitabili. Non è mai stata tentata di “ribellarsi al personaggio”, insomma di evitare di fargli commettere alcune delle azioni peggiori? RH: Forse, ma sarebbe stato tradire il personaggio. Devo essere realistica: una volta che ho costruito la sua personalità, le sue azioni erano praticamente obbligate. Su questo non sono d’accordo: sono convinto che a chiunque, in qualunque situazione, sia dato di conservare una scintilla di libero arbitrio. RH: Come hai notato, a causa di ciò che ha subito Kennit non è completamente sano mentalmente. Capisco, ma mi permetto di insistere: anche i pazienti con malattie mentali gravi conservano una seppur minima libertà di scelta. Il serial killer può dire alla sua vittima «Scappa ora, perché non riuscirò a controllarmi un istante di più». Uno psicotico può comunque scegliere di accettare la terapia, piuttosto che avversarla. RH: Va bene. Diciamo allora che comunque alla fine Kennit ha fatto le sue scelte. Dopo tutto, stiamo parlando di un antagonista, per quanto tormentato e segnato dal suo passato. E la sua scelta più tragica è certamente [SPOILER - La nave del destino] lo stupro di Althea. Lei stessa in fondo fa dire a Tintaglia che si tratta «di un crimine che non può essere perdonato». Come è stato per lei, come scrittrice e come donna, avere a che fare con quella scena del romanzo? RH: [Risponde ferma e decisa; probabilmente si tratta di qualcosa su cui aveva già meditato a suo tempo] Ho deciso fin dall’inizio che non doveva assolutamente risultare né erotica né “piccante”. Stiamo parlando di qualcosa di atroce. Volevo raccontare quanto era accaduto senza indulgere alla descrizione. E poi, per me era molto importante affermare che lo stupro spesso colpisce donne forti. Mi sono imbattuta spesso nella convinzione che fatti del genere non possano toccare a personalità forti e decise come Althea. Purtroppo, spesso è vero il contrario. Volevo scriverlo. Proprio come il regista di un film, nello scrivere può decidere dove puntare la telecamera. RH: Esatto. Posso scrivere di qualcosa di tremendo senza inquadrare particolari che darebbero al lettore una sensazione diversa. Però ha deciso di fare una scelta opposta in Fool’s Fate, dove inserisce probabilmente la scena più erotica dei suoi romanzi. Mi riferisco all’incontro sulle Isole Esterne fra Devoto e la Narcheska Elliania: non voglio essere puritano, ma è una descrizione piuttosto esplicita di una minorenne in topless. RH: Ma neanche qui avevo il fine di titillare il lettore! Anche in questo caso, la prospettiva è antropologica: Elliania appare in topless semplicemente perché fa parte dei costumi della sua cultura. Parlando di personaggi femminili, mi preme sottolineare che la loro caratterizzazione sembra costituire una delle differenze più eclatanti fra il suo lavoro e quello di George Martin. Lei ama rappresentare donne al contempo molto forti ma anche realistiche, laddove in A Song of Ice and Fire appare difficile trovare personaggi femminili di statura paragonabile. RH: Non direi. Pensa a Lady Catelyn o a Cersei… Be’, la prima [SPOILER - I fiumi della guerra, GRR Martin] conduce a morte se stessa e il proprio primogenito, la seconda è divenuta nel corso della serie un caso psichiatrico…! RH: Può darsi, ma pensa allora alle due giovani sorelle Sansa e Arya Stark… Anche qui, avrei da obiettare! La prima è la traditrice par excellence, la seconda costituisce una descrizione da manuale di “disturbo antisociale di personalità”! Mi limito a domandarle: sinceramente, ma lei sarebbe contenta di avere due figlie così? RH: [Ride] No, forse no! Ma non è questo punto: che realismo nella loro caratterizzazione! Si tratta a mio parere del medesimo discorso che si faceva su Kennit: una volta stabilite le circostanze in cui il personaggio si trova costretto, bisogna essere coerenti nel descrivere l’impatto sulla sua personalità. Credimi: Malta avrebbe potuto “diventare Sansa”. Per fortuna, si è trovata in circostanze migliori. Questo mi porta a un’altra domanda: cosa pensa accadrà, qualora fossero i lettori a “ribellarsi” alle azioni di un personaggio che amano? RH: Ma questa non è un’ipotesi: è già successo! Alla conclusione della seconda trilogia dei Farseer, ho ricevuto moltissime lettere di lettori delusi o in collera per la conclusione [SPOILER - Il destino dell’assassino] del rapporto fra Fitz e il Matto. E come ha reagito? RH: Tutte quelle lettere mi hanno portato a rendermi conto che forse avevo una visione troppo rigida sull’argomento: nella mia testa, [SPOILER - Il destino dell’assassino] il rapporto fra il Matto e Fitz era precisamente quello che avevo scritto. Lo era da moltissimo tempo. Allora i lettori avevano torto? RH: Non si tratta di avere torto. Molti lettori non potevano accettare che [SPOILER - Il destino dell’assassino] l’amore fra Fitz e il Matto non venisse consumato fisicamente. Il punto è ancora quello della coerenza: il personaggio che avevo costruito non era gay e sarebbe stato assurdo trasformarlo d’incanto da eterosessuale a omosessuale solo perché i due potessero amarsi fisicamente come tanti lettori si aspettavano. Fitz e il Matto si amano. Non c’è bisogno che l’atto sia consumato fisicamente perché il loro amore sia completo. |
intervista di Guido Marongiu; introduzione di Sara Silvia Piras Parma, 12.6.2010 |