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Cari lettori: una lettera da Robin Hobb
Dalla scrivania di Robin Hobb


Cari lettori,

nella saga di Harry Potter incontriamo Colui Che Non Deve Essere Nominato. Una trovata efficace, vero? Un personaggio talmente tenebroso e letale che anche solo pronunciare il suo nome avrebbe richiamato la sua attenzione e tutte le potenziali sciagure che ne sarebbero seguite.

Nelle mie storie non c’è un personaggio che non deve essere nominato.

C’è invece, nella mia vita reale, un pensiero reale che non deve essere pensato. (Ndt. Robin utilizza per scherzo due participi sgrammaticati per il verbo think/pensare ~ thunk, thoughted ~ per evitare di scrivere “thought that must not be thought”. Alla fine si rassegna a usare l’espressione corretta, anche se suona male per via della ripetizione)

È un pensiero che forse perseguita anche altri scrittori di narrativa. Non soltanto di fantasy, ma di tutti i generi: romanzi d’amore, storici, western, persino l’alta letteratura. Per quel che so, forse tiene svegli di notte gli editor e manda in cerca di un drink i proprietari della case editrici. Io so che quando striscia nella mia coscienza, mi spaventa e mi fa nascondere dietro un velo di parole.

No, non si tratta degli e-book. E nemmeno di quel che verrà dopo gli e-book.

È il pensiero che viene nel cuore della notte, quando sono alla tastiera da sola, a parte un gatto arancione che fa le fusa in modo riprovevole. Viene quando le dita rallentano e poi smettono di pigiare sui tasti. Spesso accade quando lascio i miei personaggi a briglia sciolta, si cacciano in una situazione senza via d’uscita, e quindi mi fissano a occhi sgranati, come dei bambini, con un’espressione del tipo “Bene, e ora che succede?” Viene quando so che è compito mio salvarli con un colpo di scena diabolicamente ingegnoso o con (Dio ce ne scampi e liberi) un Deus Ex Machina della serie “Uscite gratis di prigione”.

Guardo lo schermo, rileggo gli ultimi venti righi o giù di lì, e all’improvviso mi si affaccia alla mente il Pensiero Proibito.

“Non è sciocco? Non è sciocco aver trascorso gli ultimi quarant’anni della tua vita facendo la cosa più sciocca che riesci a immaginare? Dire ad altri adulti: ‘Fingi insieme a me che sia vero.’ E poi passare un anno a mettere su carta quella finzione.”

Ricordo quand’ero una bambina al parco giochi, alla fine degli anni ’50 o all’inizio dei ’60, e mi bastava dire: “Fate finta che io sia uno splendido cavallo nero!” E non ero più la scolara di terza con il vestito che arrivava al polpaccio, stretto in vita con un fiocco, ma un magnifico cavallo arabo nero che galoppava sull’asfalto, saltando oltre le linee dei Quattro Cantoni tracciate sul marciapiede. E nessuna delle altre ragazze sfidava quella fantasia. No, diventavano Flicka o Misty o Furia o Black Beauty o qualche altro cavallo immaginario o letterario, e galoppavano insieme a me mentre inventavo dei giochi in cui dovevamo sfuggire a uomini malvagi che volevano catturarci oppure salvare i nostri amati proprietari da frane o inondazioni!

Giochi che si fanno in terza. Non ci abbiamo giocato tutti? A volte avevamo in mano delle bambole, o i personaggi di G.I. Joe o i cavalli della Breyer, piccoli avatar per focalizzare la magia della nostra immaginazione. A volte galoppavamo e basta, nitrendo e scuotendo le teste. E fingevamo.

Ma ora siete troppo cresciuti per cose del genere, vero? Non galoppate fuori dall’ufficio per la pausa caffè, giusto?

Siete tutti troppo maturi per questo.

Io no.

Magari non galopperò lungo i marciapiedi del quartiere, fermandomi a tastare il marciapiede con uno zoccolo calzato di Sneakers, eppure lo faccio ancora.

Siedo ancora alla tastiera e dico ai miei amici: “Fate finta che sia un assassino cresciuto in un castello, e vi racconterò ogni mio singolo pensiero, quello che faccio, vi dirò di chi ho paura e vi dirò chi amo.” E voi mi crederete, come facevano i miei compagni al parco giochi. Spenderete le ore della pausa caffè o quelle prima di dormire a fingere per gioco insieme a me. Vi farò preoccupare del destino di un mondo che non esiste. Vi farò mangiare le unghie per un personaggio che non ha mai tratto un solo respiro. Vi ruberò il sonno, e vi farò protestare per la rabbia, o forse vi farò versare una lacrima e tutto in nome di un gioco di finzione.

“Che sciocchezza! Com’è sciocco da parte mia pensare che qualcuno voglia ancora giocare a ‘fare finta’ con me.”

Ecco. È questo. Il pensiero più pericoloso che uno scrittore di narrativa possa mai considerare.

Sto reggendo tutti i fili dell’arazzo. Ognuno deve essere collocato con un’attenzione meticolosa. Ma se, in un solo momento di distrazione, lascio entrare quel pensiero nella mia mente, se per un unico istante penso “Che sciocchezza da parte mia!”, sarò mai capace di tessermi nuovamente in quel mondo? Sarò mai capace di forzarmi ad amare i personaggi e a credere che quel che succede loro sia significativo e importante?

Se mai mi alzassi in piedi durante una sessione di autografi e dicessi: “Oh, che gente stupida! Perché avete a cuore il Matto? È tutta una bugia, me lo sono inventato,” qualcuno di noi riuscirebbe mai ad aprire ancora la porta su quel mondo? O su un qualsiasi mondo che esiste solo dietro la copertina di un libro?

È un pensiero terrificante, vero? È pericoloso come dire: “Gli unicorni non esistono.” Perché una volta che lo hai detto, con ogni convinzione, non vedrai mai più un unicorno.

E allora rifiuterò ancora una volta di considerare quel pensiero.

Tirerò le orecchie a Fitz per la sua testardaggine o implorerò il Matto affinché per una volta, una volta soltanto, dica qualcosa senza giri di parole. Ma prometto di non dirvi mai che il mio mondo o i miei personaggi non sono reali.

Non penserò quel pensiero.

Perché so che non è vero.


Sinceramente,

Robin Hobb

Suvudu | Dear Readers: A Letter from Robin Hobb - 15.06.2014
traduzione di Barbara “The Fool
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