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Personaggi al proprio posto
Robin Hobb ci regala un rapido sguardo sulle sue fonti di ispirazione, e su come personaggi e luoghi possono fare ben più che “riempire” le storie…


Due anni e mezzo fa, tirai fuori dei file dal mio archivio (sì, file cartacei!) e li sparpagliai sulla scrivania. Fu un po’ come aprire una capsula del tempo. Su carta a quadretti spiegazzata c’era la linea del tempo che avevo allungato attaccando altri fogli con lo scotch via via che passavano gli anni nel mio mondo e in quello di Fitz. Un trafiletto che descriveva l’ultimo paragrafo di un libro che finirò di scrivere fra altri dodici o diciotto mesi. Frammenti di dialogo, note manoscritte sull’aspetto e sulle particolarità dei personaggi. Quella cartella conteneva tutti i fogli sparsi che avevo spazzato via dalla mia scrivania e messo da parte alcuni mesi dopo la pubblicazione del Destino dell’assassino.

Amo la carta. In questo mondo digitale, sono ancora legata alla carta. Quando ricevo un libro nuovo, lo apro, tocco la carta e annuso le pagine. Questi vecchi fogli dell’archivio hanno un odore e una consistenza propri. La carta a quadretti ha i bordi sbiaditi, lo scotch ingiallito viene via, i piccoli strappi lungo i margini formano quasi una frangia. Mi piace usare la matita quando prendo appunti, e la traccia si ammorbidisce e si spande sulla pagina col passare degli anni. I foglietti adesivi perdono la colla e vagano liberi nella cartella.

E il debole sentore sulla carta è la mia vecchia casa, la casa in cui prese forma per la prima volta L’apprendista assassino. Era un rudere dall’aspetto irregolare, nato come capannone per l’allevamento dei polli. Basso e lungo, con tutta l’eleganza architettonica di una scatola di cereali rovesciata, e con un tetto di legno di cedro. La casa era un riparo semi-permeabile. La copertura vecchio stile in cedro proteggeva bene dall’acqua, ma dal sottotetto si riusciva a intravedere la luce del giorno. I davanzali non si incastravano perfettamente in muri fatti per riparare i polli. La casa era permeata dalla polvere, dall’umidità e dal sentore leggero di antiche piume. L’odore sulla carta mi riporta a quella vecchia casa e al mio “ufficio” di allora.

La mia scrivania era un residuato dell’esercito, un’immensa struttura d’acciaio con tanti cassetti. Uno scomparto, usato per riporre scatole di documenti, conteneva in realtà un ripiano meccanico per la macchina da scrivere, che sarebbe venuta fuori posizionandosi alla giusta altezza. Ma al posto di una macchina da scrivere, io avevo un computer Kaypro. C’erano due ingressi per i floppy disk: quello superiore ospitava il disco del mio programma di videoscrittura, WordPerfect; quello inferiore il dischetto su cui ogni notte salvavo la mia storia. Avevo una sedia di legno con lo schienale dritto presa al negozio dell’Esercito della Salvezza. Dovevo stare attenta a non spingerla troppo indietro, perché il pavimento dell’ufficio era su due livelli. Se l’avessi spostata troppo, le gambe posteriori della sedia avrebbero fluttuato nel vuoto.

Per fortuna, dato che dividevo il mio “ufficio” con la lavatrice e con l’asciugatrice, non c’era abbastanza spazio perché la sedia si rovesciasse del tutto. A causa delle vibrazioni, dovevo stare molto attenta che non partisse la centrifuga quando tentavo di salvare sul dischetto. Di tanto in tanto, un rovo rampicante si faceva strada fin dentro la stanza strisciando attraverso il condotto dell’asciugatrice. Scrivevo per lo più di notte, con l’alone di luce gialla della lampada sulle mie note a matita, e i caratteri verdastri che tremolavano sul piccolo schermo quadrato. Ed ecco, subito fuori dal cerchio di luce, appoggiato allo stipite della porta, Fitz parla con voce bassa e costante. Dietro di me, rannicchiato come un pupazzo a molla, il Matto sta appollaiato in cima all’asciugatrice e annuisce, interrompendo di tanto in tanto con le sue osservazioni o con precisazioni leggermente irriverenti su come lui ricorda la scena. Sembra di stare intorno al fuoco, come se, appena oltre l’asciugatrice e la cornice della porta, buie foreste sempreverdi avvolgessero il mondo in una notte più profonda. Occhi-di-notte è là fuori, eternamente a caccia.

Davvero, è così che ricordo di aver scritto quei libri. Da sola, nella luce fioca, ad ascoltare. A metà dell’Apprendista assassino, rinunciai a pilotare il racconto e mi limitai a seguire la fortissima corrente della Storia. Mi trascinò via fino alla fine di quel libro.

Facciamo un salto in avanti di circa un ventennio. Sedevo alla mia bella scrivania di legno, guardavo fuori dalla finestra e affrontavo una decisione. Avevo ricevuto una marea di e-mail impressionante dopo la conclusione del Destino dell’assassino. La gente delusa e arrabbiata è incline a scrivere lettere molto più dei lettori soddisfatti. Ero stata quindi ben informata di tutti i punti in cui non avevo incontrato le aspettative dei lettori. Mentre scorrevo i miei vecchi appunti, sapevo di trovarmi a un bivio. Potevo scegliere di fare mio il contenuto di quelle lettere e ignorare le vecchie fondamenta e l’impalcatura. Potevo costruire ciò che avevano suggerito, arrangiando un nuovo rivestimento, mettendo il linoleum sul pavimento di legno, intonacando le contraddizioni con spiegazioni semi-plausibili. I miei editor sarebbero stati abbastanza in gamba da individuare i rattoppi, ma mi avrebbero lasciato fare.

Io avevo vissuto in quell’edificio, nel capannone dei polli trasformato in casa. Conoscevo tutti i punti in cui le prese elettriche non avevano la messa a terra, dove la tubatura di plastica era stata innestata sul buon rame, dove vecchi ripiani di legno erano stati rivestiti con laminato scadente. Non volevo costruire una cosa del genere e spingervi dentro Fitz e il Matto come se trasferissi dei furetti nell’habitat di un gerbillo.

Quindi, senza scusarmi, la trilogia di Fitz e del Matto sarà la storia che era nelle mie intenzioni. Di notte siedo nuovamente fra le ombre, ad ascoltare il mio narratore che intravedo appena. Ammetto che avere una sedia col supporto lombare in una casa dotata di un circuito a parte per i computer fa una certa differenza a livello di comfort. Ma non cambia le voci che mi parlano dal buio.

E sì, quel paragrafo verrà usato. Quello scritto a matita su carta scadente e sbiadita. Finalmente.


Robin Hobb

Waterstones Blog | Characters in Place - 31.07.2014
traduzione di Barbara “The Fool
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